giovedì 24 aprile 2014

Dice che il gelato di Fassi piaceva proprio a tutti..


Come tutti gli anni all'arrivo della bella stagione inizia l'acceso dibattito con tanto di risse sulla proclamazione del gelato più bono di Roma. E mentre persino le maledizioni del "bio", del "chilometro zero" e del "vegan" si abbattono sul caro vecchio cono, glorificato dalla pretenziosa origine delle materie prime, (perchè se il pistacchio non è di Bronte e la nocciola non è del Piemonte allora so' cazzi amari) fortunatamente esiste ancora una tradizione che sopravvive ferma e imperturbabile all'interno dell'austero "palazzo del freddo" di via Principe Eugenio. L'antica gelateria Fassi: un'isola temporale dove la qualità e il rincorrersi delle mode e delle patologie moderne che mettono alla gogna glutine e lattosio, passa in secondo piano rispetto all'esperienza di gustare un gelato che rappresenta un pezzo di storia della nostra città.

Siamo nel cuore del quartiere Esquilino, Chinatown capitolina ricca di contrasti dove la Roma popolare convive con le nuove ondate migratorie sullo sfondo di portici Ottocenteschi e severe architetture Umbertine. E mentre il commercio cinese si allarga alla conquista del quartiere con la moltiplicazione di anonime vetrine che affacciano su un vuoto espositivo riempito da sospetti, congetture e leggende metropolitane, la famiglia Fassi cosa fa? "Asserragliata" nel proprio quartier generale del palazzo del freddo, (e con questo nome quasi fiabesco come non pensare alla fabbrica di cioccolato di Willie Wonka?) lancia il contrattacco e inaugura un punto vendita proprio a Shangay (tiè). Perché alla fine un equilibrio si trova sempre e, dopo una prima inevitabile fase caratterizzata da accuse e sospetti, le nuove generazioni di cinesi iniziano finalmente ad integrarsi nel rione masticando romanaccio e leccando gelato; e non parliamo di quella maledettissima palla fritta del ristorante cinese che ha spaccato i denti a generazioni di italiani nel suo implacabile contrasto caldo-freddo, ma proprio del gelato di Fassi, tornato ad essere punto di riferimento del quartiere dopo un breve periodo di crisi e una successiva fase di assestamento che lo ha riportato ai suoi antichi splendori.

Il capostipite Giacomo e la moglie Giuseppina arrivano dal Piemonte all'indomani dell'unità di Italia. Perché prima ancora dei cinesi, l'Esquilino l'hanno colonizzato i piemontesi, quando Roma, proclamata nel 1870 capitale del regno, si è preparata ad accogliere quell'esercito borghese di burocrati e ministeriali che dalla precedente capitale Torino (passando per Firenze) si sono riversati in massa verso la nuova sede di un governo finalmente laico, in questa "metropoli" di fine Ottocento pronta al salto verso la modernità dopo secoli di immobilismo clericale. Ed è così che l'intero quartiere viene riprogettato su misura, con quell'enorme piazza dedicata a Vittorio Emanuele circondata da portici per far sentire i piemontesi un po' più a casa. I Fassi danno il via alla loro epopea con una rivendita di ghiaccio e birra in via delle Quattro Fontane e, se la scelta di commercializzare la bevanda luppolata rappresenta decisamente un primo punto a loro favore, la definitiva consacrazione del mito avviene con la ferma decisione del figlio Giovanni, pasticcere ufficiale della casa reale, di abbandonare la privilegiata posizione lavorativa a causa del suo categorico rifiuto di tagliarsi i baffi, così come previsto dal codice interno a seguito di un'ordinanza speciale del re (ma questa dell'orgoglio baffuto è una valutazione personale molto di parte).


La scelta di mettersi in proprio non tarda a produrre i suoi frutti, e dopo alcuni anni la famiglia è in grado di acquistare un nuovo palazzo proprio nel cuore borghese della capitale, dove in 700 metri quadrati tra laboratorio e saloni liberty inizia a prendere piede il mito del gelato artigianale in grande scala. E in virtù di una cinica legge del commercio che non guarda in faccia a nessuno, tra gli estimatori dei gelati Fassi nel corso del tristemente celebre ventennio, ritroviamo anche Mussolini, Italo Balbo e lo stesso Adolf Hitler in visita a Roma, da cui vennero commissionate delle torte gelato con tanto di svastica la cui vista potrebbe addirittura farmi rivalutare le stucchevoli evoluzioni dell'odierno ed irritante cake design. Per permettere a Balbo di portare le sue scorte fino in Libia venne persino brevettato il sistema del telegelato Giuseppina (in onore della moglie del capostipite), con l'impiego sperimentale di ghiaccio secco per la spedizione e la conservazione dell'ambito prodotto oltre i confini del regno. 

La grande storia del Novecento e delle grandi guerre, oltre che sui campi di battaglia, segue il suo corso parallelamente anche nella celebre gelateria, come quando nel 1945 la Croce Rossa americana decise di requisire il locale per produrre il gelato per le truppe Statunitensi di stanza a Roma. Tra l'altro fu proprio in questa occasione che un tale Alfred Wisner, l'ingegnere della Croce Rossa che aveva coordinato le operazioni di occupazione dello stabile, propose a Giovanni Fassi di creare un'azienda a vocazione industriale, utilizzando la tecnologia di un nuovo impastatore che avrebbe permesso la produzione di gelato in grandissime quantità. Giovanni rifiutò di abbandonare i suoi ideali di artigianalità, e il sig. Wisner seguì da solo il suo progetto fondando nientedimeno che la Algida. Oggi i macchinari originali di inizio secolo scorso sono esposti nelle vetrine e all'interno del salone, dove ancora si respira un'aria retrò solo in parte intaccata dalle folle di turisti e romani che si affollano al bancone. E tra vecchie locandine, tavolini in marmo e una nostalgica fontanella interna (perché il bicchiere d'acqua è un complemento d'obbligo al gelato, così come dovrebbe esserlo al caffè in ogni bar che si rispetti), alzando lo sguardo verso gli alti soffitti potremmo quasi percepire l'atmosfera di una sala da ballo di inizio Novecento. 

La vera chicca è il cortile liberty che si apre sul lato opposto dell'ingresso, un angolo silenzioso dove il tempo sembra essersi fermato e dove avviene il mio felliniano incontro con quattro simpatiche suore sedute sulle panchine di legno all'ombra delle piante. L'ulteriore prova che stiamo parlando di un gelato d'autore, perché se un tempo si riteneva che i posti  se magna bene si riconoscono dal numero di camion parcheggiati fuori, oggi la garanzia del godereccio ci viene confermata dalla presenza di preti e suore che, tra un sacrificio e l'altro, nel momento in cui decidono di peccare di gola, scelgono sempre di farlo al top. Leggendo i vari articoli esposti all'interno scopro che la famiglia, oggi come allora, ha sempre vissuto nel palazzo, il che rende ancora più affascinante l'idea di questa roccaforte del gelato con i Fassi che, al pari dei Lannister o degli Stark, continuano a presidiare il proprio castello proteggendolo dall'invasione della potenza economica Cinese.

Dopo essermi perso tra articoli, fotografie e vecchi cartelloni pubblicitari degli anni trenta e quaranta, esco dal palazzo con una confessione da fare: "alla fine nun me so magnato manco un gelato"! Forse avrei dovuto provare almeno il "sanpietrino": un quadrato di semifreddo ricoperto di glassa al cioccolato ispirato alla forma di quei famosi serci romani che lastricano le nostre strade attentando alla vita dei centauri motorizzati e delle impavide camminatrici su tacco dodici. E quindi lascio a voi il compito di andare e riferirmi, perché alla fine anche io, da bravo  romanaccio campanilista di quartiere, valore storico a parte, rimango fedele alla gelateria dietro casa: nel mio caso la mitica "Gelatomania" della Portuense, a cui posso comunque affettuosamente rimproverare che sì, magari non avranno prodotto torte gelato con la svastica, ma sull'orrido gusto "puffo" anni Ottanta dalla tonalità bluastra ce so cascati pure loro! (e i puffi non erano comunisti poi?)



lunedì 10 marzo 2014

Dice che se non è stata la Madonna allora so' stati gli ufo (il miracolo della neve d'agosto)

Tra le varie leggende romane legate alla fondazione di chiese o basiliche, "il miracolo della neve d'agosto" è senza dubbio la più originale. La storia ci viene raccontata nel meraviglioso ciclo musivo realizzato da Filippo Rusuti nel tredicesimo secolo sulla facciata della basilica di S.Maria Maggiore. Gli splendidi mosaici del Rusuti costituiscono una delle pochissime tracce superstiti della produzione artistica medievale romana, fortunatamente sopravvissuti all'intervento Settecentesco dell'architetto Ferdinando Fuga che, in un inconsapevole slancio conservativo, e in palese controtendenza rispetto alle smanie demolitive dei papi dal Rinascimento in poi, li risparmiò dalla distruzione durante i lavori di rifacimento della facciata della basilica. La soluzione del Fuga prevedeva infatti la sovrapposizione della nuova facciata alla precedente, con l'apertura di una loggia che lasciasse parzialmente visibile l'opera musiva trecentesca. La loggia è oggi accessibile con un ingresso extra a pagamento nell'ambito di una visita alla basilica.

La leggenda racconta di una coppia di ricchi patrizi romani che, essendo un pò avanti negli anni e senza figli a cui lasciare i propri beni, decisero di beneficiare la chiesa del loro patrimonio al fine di garantirsi una piacevole permanenza nella vita ultraterrena. Con un perfetto tempismo e invidiabile spirito imprenditoriale la madonna apparve dunque in sogno al ricco patrizio, suggerendo lo stanziamento di tali fondi per la costruzione di una basilica a lei dedicata, nel luogo dove l'indomani si sarebbe verificato un evento miracoloso. Secondo la versione tramandataci dai mosaici del Rusuti, il patrizio si recò da papa Liberio per raccontare il suo sogno, il quale gli confermò di aver avuto esattamente la stessa visione nel corso della notte precedente ("vuoi finanziare la costruzione di una nuova basilica perchè te l'ha suggerito in sogno la vergine Maria? Considera che è passata anche da me per ribadire la cosa, quindi direi ormai te tocca pe forza"). Ma quale sarebbe stato il segno che avrebbe indicato il luogo esatto? Ebbene proprio quella mattina del 5 Agosto 352 d.c., nonostante fosse piena estate, la cima dell'Esquilino si imbiancò di neve. Quando il papa e il patrizio Giovanni si recarono sul posto richiamati dall'insolito evento non ebbero più dubbi, e fu così che lo stesso papa Liberio tracciò con un bastone sul manto di neve il perimetro di quella che sarebbe stata la nuova Basilica di S.Maria Maggiore.

I mosaici di Filippo Rusuti (sulla cui paternità non abbiamo dubbi, almeno per quanto riguarda la sezione superiore, nella quale ci lascia un'inequivocabile firma), costituiscono un'importante testimonianza di quel prezioso patrimonio artistico di epoca medievale, sistematicamente cancellato dalla storia della nostra città, la cui riscoperta ci costringe a rivedere il nostro classico pregiudizio su un Medioevo privo di guizzi artistici di alto livello. Mentre la parte superiore riprende i temi della classica iconografia bizantina, con il Cristo comodamente seduto sul trono gemmato, circondato da tutta la sua corte di angeli, madonne e apostoli, la sezione inferiore, le cui differenze di stile fanno sorgere qualche dubbio sull'attribuzione dell'opera, ci racconta attraverso una curiosa tecnica pre-fumettistica la storia del miracolo della neve. In particolare nella rappresentazione del sogno del patrizio Giovanni, fa sorridere ritrovare il prototipo della classica nuvoletta dei fumetti, realizzata attraverso la raffigurazione di un tubo (o di un raggio) che, dipartendosi dalla testa dell'uomo dormiente, si ricollega ad un clipeo contenente la protagonista del sogno nella sua veste di consulente immobiliare.


Successivamente assistiamo alla rappresentazione del confronto dei due protagonisti mentre si raccontano a vicenda la propria esperienza onirica ( la coincidenza di contenuti giustifica questo dialogo come unica eccezione ammissibile alla noiosissima abitudine di raccontare a qualcuno il proprio sogno..e qui Zerocalcare docet), per poi infine giungere alla conclusione della narrazione con l'evento clou dell'intera leggenda: i protagonisti e la folla riuniti sotto la miracolosa nevicata, con il papa improvvisatosi architetto progettista con la sola imposizione di un bastone. Trovo meravigliosa e quasi commovente nella sua ingenuità figurativa di stampo medievale, la rappresentazione della neve che si trasforma in una specie di mantello e che, come una coperta stesa da una finestra del Corviale, viene calata sulla folla stupefatta e incredula. Ogni dettaglio dell'intero ciclo musivo è una piccola scoperta su questa bellissima interpretazione del mondo, ma il tutto diventa ancora più entusiasmante quando si scopre che ogni singola scena è arricchita da una didascalia accompagnata da un'annotazione musicale, al fine di permettere ai fedeli di cantare il relativo avvenimento. Un vero e proprio karaoke ante-litteram dove a fare da megaschermo sono le bellissime sfumature dorate dell'antica facciata della basilica (prima che venissero seminascoste dalla controfacciata del Fuga). 


Ma quale potrebbe essere la vera origine di questa leggenda che ha avuto una così grande risonanza nel corso dei secoli? Una grandinata estiva? Un'allucinazione collettiva? Una delle ipotesi più affascinanti ci viene suggerita da una rappresentazione tardiva dello stesso episodio rappresentata nell'opera intitolata "il miracolo della neve" (1428) del grande Masolino da Panicale, oggi conservata nella galleria di Capodimonte a Napoli.
Questo dipinto è stato oggetto di interesse per tutti gli appassionati di ufologia a partire dagli anni Settanta, in quanto considerato prova di un avvistamento di oggetti volanti non identificati avvenuto e (conseguentemente interpretato in chiave religiosa) in un passato non proprio recente. La definizione dei contorni delle nuvole e il loro modo di procedere da dietro le montagne in un ordinatissimo schema di coppia, sulla scorta di una grande nave madre in stile "Visitors", sembrerebbe in effetti suggerire qualcosa di più di un banale episodio meteorologico. Per il resto non mancano la neve e papa Liberio che, in un impeccabile stile da provetto giocatore di golf, realizza il tracciato della basilica.

Per capire questo legame tra la neve e un possibile "incontro ravvicinato" ci viene subito in mente un altro storico episodio, avvenuto in questo caso a Firenze nel ben più recente 1954. La data è ricordata come quella del più importante avvistamento ufologico della storia nazionale, avvenimento che venne riportato in prima pagina da tutte le cronache dell'epoca e al quale assistettero migliaia di testimoni, tra cui diversi giornalisti e lo stesso capocronista della Nazione. E se perfino una partita di calcio (Fiorentina-Pistoiese) venne interrotta per venti minuti, quando anche i giocatori furono distratti dalle evoluzioni di alcuni oggetti volanti luminosi sopra lo stadio, allora abbiamo la conferma del fatto che si trattò effettivamente di un evento epocale.

La cosa interessante è che, in concomitanza con gli avvistamenti, Firenze venne interessata dal misterioso fenomeno di una "nevicata" di materiale vetroso simile alla bambagia, che imbiancò alcuni punti della città per poi dissolversi velocemente al contatto con il terreno. Tale materiale venne ribattezzato "bambagia silicea", in quanto, una volta analizzati alcuni campioni, risultò essere costituito perlopiù da boro e silicio. Residui industriali di una qualche azienda tessile portati dal vento? Scarti produttivi di una vetreria della zona? O addirittura, come si ipotizzò con una certa convinzione, un fenomeno scientifico connesso alla migrazione di una specie di ragni, che producono in natura questo materiale simile alle ragnatele, per poi attaccarvisi e lasciarsi trasportare dal vento nel loro percorso migratorio? Ancora oggi le diverse ipotesi rimangono aperte. Ma è possibile che qualcosa di simile potesse essere avvenuto anche a Roma in quella mattina d'agosto del 352? E' ovvio che in un'epoca totalmente intrisa di cultura religiosa non ci sarebbe stato spazio per alcuna ipotesi di migrazione aracnide, e l'unica spiegazione possibile avrebbe coinciso con la manifestazione di un segno divino. Se dunque si fosse trattato di neve, grandine o bambagia silicia possiamo solo immaginarlo. Quel che è certo è che ancora oggi, nella celebrazione della rievocazione del miracolo durante la messa del 5 di Agosto, possiamo ancora assistere all'interno di S.Maria Maggiore ad una "vera" nevicata di petali di rosa che, lasciati cadere dal meraviglioso soffitto a cassettoni della basilica, realizzato con il primo oro giunto dalle Americhe alla fine del Cinquecento, riesce ancora a lasciarci a bocca aperta. L'evento viene ripetuto anche all'esterno con il supporto di effetti speciali, ma forse in questo caso tanta tecnologia non è sempre del tutto gradita alla Madonna, se pensiamo che nel 2012 uno dei camion con l'attrezzatura venne rubato costringendo l'organizzazione alla cancellazione dell'evento. Ma almeno in questo caso possiamo dire di avere una certezza: gli alieni questa volta non c'entravano un cazzo!

I mosaici della loggia sono visitabili tutti i giorni della settimana dalle 9:00 alle 18:30 al costo di 5 euro a persona.


giovedì 26 dicembre 2013

Dice che a Natale bisogna ricordasse pure de Mitra

Roma è una città che va letta strato dopo strato come un'unica storia senza interruzioni, dove ogni cosa è stata qualcos'altro, in un continuo processo di cambi di identità che neanche le spie della guerra fredda. Scavare nel proprio passato per trovare il prima, l'altro, la causa, non è psicologia d'accatto, ma è leggere Roma, ed è quello che rende questa città unica al mondo. A Roma si guarda indietro e poco avanti, sotto ma non sopra, fino al paradosso di ritrovarci con pochissime stazioni metro e un sacco di Mitrei. E il prossimo che prova a dire che a Londra e Berlino "ce stanno molte più linee della metropolitana" lo spedisco a calci in culo a Londra e Berlino, perchè alla fine tutto questo passato sotto i piedi bisogna anche un pò meritarselo.

Nel sottosuolo di Roma esistono diversi Mitrei, templi sotterranei dedicati al culto della divinità orientale Mitra, il giovane dio dal berretto frigio. Si può dire che il Mitraismo abbia preceduto e posto le basi per la diffusione del nostro attuale Cristianesimo, anche e soprattutto da un punto di vista architettonico: i Mitrei romani si trovano infatti spesso al di sotto delle chiese cristiane, soppiantati fisicamente in quell'inevitabile processo di distruzione, riappropriazione e assorbimento del paganesimo. La nostra possibile alternativa in uno "sliding doors" delle religioni, se l'imperatore Costantino o chi per lui non avesse deciso diversamente. Il mitreo di Santa Prisca è quello che meglio ci racconta questo culto attraverso gli stucchi e le tracce dei suoi affreschi, illuminando in parte una tradizione misterica che non ha lasciato nulla di scritto, e dove solo gli adepti avevano la facoltà di tramandare oralmente le complesse regole e i rituali. Il culto venne importato a Roma dall'oriente dai legionari che facevano ritorno dalle campagne nelle provincie dell'est. Si basava sul concetto di fedeltà, di patto (mitra) ed era caratterizzato da dure prove di iniziazione, per un rituale che vedeva il suo culmine in un grandioso banchetto di gruppo. L'ideale per un soldato fomentato che tra cameratismo, prove di forza per "scoattare" e una sbronza collettiva, sembrava aver trovato la strada più consona per avvicinarsi alla spiritualità. Decisamente un affare per soli uomini che, nel suo percorso iniziatico e nell'elemento di esclusività maschile, ricorda molto una sorta di massoneria ante-litteram. Il culto originale venne infine modificato e alleggerito, lasciando al centro il simbolismo di Mitra, inviato dal dio sole per creare e fecondare la terra.

Come tutti gli altri, anche il mitreo di Santa Prisca si presenta con le caratteristiche di una grotta, a rappresentare il luogo della nascita del dio (vi ricorda qualcosa? provate a dare un'occhiata al presepe in soggiorno), dove al centro dell'ambiente campeggia la scena madre, cuore dell'intera religione: la cosiddetta "tauroctonia", l'uccisione del toro con un pugnale da parte di Mitra, l'atto con il quale tutto ha inizio. A differenza degli altri mitrei in questo caso la scena è rappresentata come un bassorilievo a stucco e si caratterizza per la curiosa presenza del dio Saturno sdraiato, realizzato principalmente attraverso il riciclo di "cocci" di anfore, probabilmente da qualche scultore alternativo, antesignano moderno degli artisti radical-chic-eco-riciclatori di materiali per opere d'arte.

Mitra ci appare col suo svolazzante mantello rosso e una divertente espressione da "bambacione" (in questo caso senza il berretto frigio, che effettivamente sarebbe stato troppo). Colui che si presenta come un moderno Superman sovrappeso de Torpigna è in realtà il dio che salva il mondo, lontano anni luce dal sexy hipster suo "concorrente" che ci hanno abituato a vedere nelle fiction nostrane sotto Natale. Mitra nasce secondo la tradizione dalla nuda roccia in una grotta (ma non al freddo e al gelo come verrebbe voglia di cantare in questo periodo) nel giorno del sol invictus: quel 25 dicembre riciclato in ogni culto pagano, e successivamente cristiano, come giorno della nascita della luce, e quindi della salvezza. Egli salverà il mondo con un atto di forza: la tauroctonia, l'uccisione del toro dal cui sangue e sperma si feconderà la terra e nascerà la vita. Un orgia di sangue e animali con un preciso simbolismo, con il cane e il serpente che lambiscono il sangue e uno stronzissimo scorpione che attenta alle palle del toro per evitare che il suo seme fecondi la terra per portare la rinascita. Questa affascinante visione ritualistica dal sapore agrario, acquista in realtà una simbologia ancora più universale. Da quest'atto si crea infatti l'universo a partire dalla barbarie primordiale e scaturisce il movimento dei pianeti che danno vita al tempo, altro elemento fondamentale del culto mitraico, che eviterò di sciorinarvi, un pò per la sua complessità e un pò perchè in fondo, mancando precisi riferimenti scritti, si tratterebbe solo di ipotesi e dissertazioni prive di un'assoluta veridicità (e con questa me la so' sfangata). L'ingresso alla grotta del mitreo di santa Prisca riporta simbolicamente al concetto di tempo grazie alla presenza, a mò di guardiani, di ciò che rimane delle statue dei due giovani dadofori (portatori di fiaccole), uno con la fiaccola abbassata e l'altro con la fiaccola alzata: l'inizio del tempo e la sua fine, con il dio Mitra che ne assurge allo zenith. Una sorta di trinità temporale che si esaurisce in un ciclo, come una rappresentazione teatrale del mondo dove Cautes e Cautopates (questi i loro nomi) sono le maschere che accompagnano e congedano il pubblico per la visione del più grande spettacolo (dopo il big bang, direbbe Jovanotti).


Altra caratteristica importante del mitreo di santa Prisca è l'affresco, ormai consumatissimo, in cui viene rappresentata una curiosa processione che finalmente ci illumina su quelli che ragionevolmente potevano essere i sette gradi di iniziazione al culto mitraico. Un percorso fatto di sette livelli, ciascuno tutelato da un pianeta. Si parte dal "Corvo", il messaggero del Sole che stipula il patto con Mitra conducendolo alla tauroctonia. Seguono il "Ninfo" (stato di elevazione spirituale, tutelato da Venere), il Miles (il soldato, tutelato da Marte e al cui status corrispondeva il superamento di dure prove in stile confraternita universitaria, tipo l'immersione in una pozza d'acqua gelida), il "Leone" (protetto da Giove, incaricato di occuparsi della celebrazione del banchetto, in poche parole quello che porta le birre e passa tutto il tempo davanti alla brace durante i barbecue) e infine il "Persiano" (chiaro riferimento all'origine orientale del culto, protetto dalla Luna) e l'"Eliodromo", il grado più alto e più vicino alla divinità, secondo solo all'ultimo, sommo livello: quello del Pater, l'identificazione stessa del dio in terra. Per tornare al simpatico Leone, l'affresco sulla parete sinistra rappresentava la processione dei Leoni nell'atto di portare le libagioni (con tori, galli e maiali), mentre alla fine scorgiamo il Sole e Mitra che banchettano insieme (notate nella foto uno splendido sole dotato del familiarissimo simbolo dell'aureola). Un ultima curiosità sul mitreo di S. Prisca è la presenza di un ulteriore ambiente sulla sinistra, ritenuto essere una sorta di spogliatoio per la preparazione della celebrazione, dove evidentemente anche l'estetica dei costumi era necessaria per fare la propria porca figura.

Esistono numerosissimi punti di contatto tra Mitraismo e Cristianesimo (la nascita del dio in una grotta il 25 dicembre, la presenza dei pastori, il concetto di trinità, l'elevazione spirituale verso un regno dei cieli in una concezione salvifica e catartica), per quanto l'estetica della ritualità si discosti notevolmente, e il banchetto pane e vino della liturgia cristiana risulti infinitamente più sobrio. Sta di fatto che fu proprio il Cristianesimo a soppiantare questo culto, enormemente diffuso fino al terzo secolo dopo Cristo, forse a causa dei suoi limiti riscontrabili in una partecipazione di base troppo elitaria e misterica, che escludeva le donne, o forse semplicemente per una scelta politica, quando Costantino decise di convogliare tutte le esigenze di spiritualità del popolo romano verso un'unica religione, che possibilmente presentasse tutti i vantaggi di un controllo politico: monoteista, universale e soprattutto controllabile, ovvero, per tornare a Mitra, "alla luce del sole". Quello stesso sole che vi invito riscoprire nei nostri sotterranei, in quelle grotte artificiali dove ancora oggi è possibile respirare il fascino del mistero e tutta la suggestione di un culto arcano e ancora sconosciuto. E se a Berlino c'hanno la metro, bhe...noi c'avemo Mitra. E scusate se è poco.

Il mitreo di S.Prisca si trova in via di S.Prisca all'Aventino (nei sotterranei dell'omonima chiesa) ed è visitabile solo su prenotazione chiamando al numero 06 399 67 700.


lunedì 14 ottobre 2013

Dice che da vicino nessuno è normale

"Visto da vicino nessuno è normale". Lo scopriremo durante questa difficile visita al complesso di S.Maria della Pietà, l'ex manicomio di Roma definitivamente chiuso nel troppo recente 1999 in seguito alla definitiva applicazione della legge Basaglia del 1978. Tra i viali alberati del parco, riconvertito in area verde oggi frequentata da joggers e famigliole, si impone la presenza di quei 34 decadenti padiglioni, e sembra impossibile non percepire il dolore di chi ha vissuto questi luoghi sulla propria pelle. Riportare la normalità lì dove la normalità non c'è mai stata, una contraddizione che stride e affascina allo stesso tempo. E' ora di abbandonare il maledettissimo politically correct e parlare di pazzi e di follia, perchè chi pazzo non ci è entrato, lo è certamente diventato una volta varcata questa soglia. E questo a causa di una legge sopravvissuta troppo a lungo ( legge Giolitti del 1904) che obbligava all'internamento persone ritenute "socialmente pericolose o di pubblico scandalo" (e quindi anche orfani, omosessuali o ragazze madri), un'aberrazione che poneva l'accento sul "comportamento" e la conseguente separazione dal corpo sociale, ma non sulla cura del disagio. Una legge volta a segregare, eliminare, annullare l'essere umano, portarlo al di fuori della società affinché venisse definitivamente rimosso (come quei bambini di strada rastrellati e rinchiusi in occasione delle pulizie generali per il santo giubileo del 1950).

Mi è stato fatto notare tra amici che sarebbe più corretto da parte mia parlare di "persone con disagi psichici", ma in certi casi di terminologicamente corretto non c'è assolutamente un cazzo, e solo il termine pazzia può definire a 360 gradi chi ha subito questo inferno, chi ha concepito certi meccanismi, chi è riuscito a mantenere la lucidità e un sentimentio umano nonostante tutto (penso al grande Adriano Pallotta, ex infermiere del S.Maria della Pietà e memoria storica di questi luoghi). Pazzia come violenza, a volte come genialità di un'espressione artistica, e fortunatamente pazzia di chi in tempi insospettabili ha avuto il coraggio di mettere ogni cosa in discussione contro tutto e tutti. A partire dallo psichiatra Franco Basaglia, che con le sue idee rivoluzionarie e incentrate sulla storia e l'individualità del singolo, ha portato a quello sconvolgimento finalmente confluito in una legge che porta il suo nome, per la chiusura dei manicomi e per un approccio volto al reinserimento e non all'esclusione sociale. Ma oltre e insieme a lui c'era anche chi portando avanti le stesse idee aveva molto più da perdere e da rischiare. Come l'infermiere Adriano Pallotta, fautore del cosiddetto blitz al padiglione 16, quando, in anticipo sulla legge e con un vero e proprio atto rivoluzionario scaturito da riunioni segrete e violente discussioni interne, vennero ufficialmente richieste e fatte approvare poche fondamentali regole per cominciare a rendere più umani e sopportabili quei luoghi senza vita: dalla conquista di una maniglia per aprire la porta, al sollievo di un attività ricreativa, per uomini ormai ridotti a zombi come semplici occupanti di uno spazio chiuso. Verso di lui c'è l'ammirazione per il coraggio, ma soprattutto per l'intelligenza e la lucidità di un uomo che, parte integrante di quel mondo chiuso all'esterno, è riuscito nonostante tutto a concepire che le cose sarebbero potute essere anche diverse da quello che erano.


Tutto questo ci viene raccontato all'interno del padiglione 6 nel nuovo "museo laboratorio della mente". Il museo è un piccolo gioiello per innovazione e metodologia, grazie anche alle sorprendenti installazioni realizzate dallo studio Azzurro. Devo ammettere che solitamente divento allergico al solo sentire parlare di "installazioni", termine che mi riporta alla mente sedicenti artisti fancazzisti e figli di papà che il più delle volte concettualizzano il nulla assoluto mettendo insieme rifiuti urbani, tracce audiovisive distorte e oggetti esposti nella solitudine di uno spazio che potrebbe essere occupato molto più funzionalmente da qualche cassa di birra. E mentre il pubblico si atteggia ad esperto, i veri grandi artisti del passato si rigirano nella tomba. Ebbene al museo della mente ho deciso di ricredermi completamente abbandonando ogni mio pregiudizio con tanto di mea culpa, di fronte alla rara eccezione di "installazioni" (mi costa dirlo) non solo dotate di un significato profondo e perfettamente condivisibile, ma dove la funzionalità della sperimentazione si accompagna ad una cura estetica di grande impatto.

Ed è attraverso di esse che si svolge la prima parte del percorso, dove prima ancora di "assistere" come spettatori morbosi e commossi alle storie tragiche di chi ha vissuto in questi padiglioni, saremo costretti a concentrarci su noi stessi e sui meccanismi della nostra mente, in un costante parallelismo fra le nostre percezioni e quelle di chi ha davvero varcato questa soglia, fisica e mentale. Si parte con la cosiddetta "camera di Ames" e le sue alterazioni percettive, per stabilire quel principio che dovrà accompagnarci durante tutta la nostra esperienza: la mente lavora in modo assolutamente pregiudiziale. Assistendo ad un effetto ottico di tipo spaziale, capiremo che è più semplice distorcere la realtà piuttosto che mettere in discussione i modelli così come abbiamo imparato a percepirli sin dall'infanzia. Lo stereotipo e il pregiudizio come pericolosa autodifesa. E così si procede in una reintepretazione delle patologie psichiche (l'illogico assedio di voci e parole, lo sdoppiamento della propria immagine riflessa, il dissociamento espressivo di chi parla senza riuscire ad ascoltare e viceversa) con pezzi di noi che ritornano nelle stanze successive, sotto forma di parole o immagini precedentemente registrate.

A questo punto saremo sufficientemente pronti ( e scossi psichicamente) per varcare la soglia della follia, una follia più subdola di quella sfoggiata in macchina o al telefono poco prima di entrare. Ci prestiamo quindi alla foto segnaletica per un ingresso simbolico tra le figure di questo passato, per poi successivamente ritrovare il nostro volto confuso tra quelli degli ex pazienti su uno schermo che controlleremo da seduti dondolandoci avanti e indietro, affinchè persino la fisicità gestuale della follia entri a far parte di noi. E se vorrete sperimentare le famose "voci nella testa", basterà accomodarsi con i gomiti appoggiati su un tavolo (ben posizionati sul punto di emissione) e le mani a coprire le orecchie, per lasciarvi deliziare da un'inquietante sequela di "nonsense" sparata direttamente nel vostro canale uditivo, dalla lista delle spesa alla quintessenza dei deliri paranoici. L'effetto acquista un senso anche visto dall'esterno: gli osservatori potranno sperimentare la vostra figura con la testa stretta fra la mani come quella di un paziente che voglia fermare questa oppressione interna, con voi stessi che diventerete parte attiva dell'installazione mentre interpretate la (vostra?) pazzia.

La seconda parte della visita riproporrà la ricostruzione (e la conservazione) di alcuni ambienti originari, dallo studio medico, luogo di speranza e umiliazione, alla farmacia, alla cosiddetta camera di contenzione, la stanza dove il paziente veniva legato al letto con delle fasce per un tempo variabile tra poche ore a qualche anno (sì, addirittura anni), il tutto per comportamenti arbitrariamente non graditi. E se la vista della camera di contenzione non fosse di per sé abbastanza forte, il fatto di spiarla in solitudine attraverso un foro sulla porta vi regalerà l'effetto speciale aggiuntivo di farvi sentire degli stronzi morbosi. Infine il refettorio, luogo di comunione e di consumo dei pasti, rivive in una raffinata trovata multimediale come archivio documentaristico. Ed è così che toccando alcuni documenti apparentemente dimenticati su un tavolaccio di legno, si apriranno le storie, le interviste e le testimonianze di chi questo mondo, da vittima o carnefice senza alcuna distinzione di ruoli, l'ha vissuto durante tutti questi anni. Si ricostruisce così il mosaico di una vera a propria città autosufficiente dove gli attori si muovono in gruppi: i medici intoccabili e distanti, gli infermieri divisi tra umani e aguzzini, i pazienti  scrupolosamente classificati per genere e caratteristiche comportamentali, e infine le suore gendarmi. Grazie a queste testimonianze si cerca di restituire l'unicità e l'individualità ad ogni singola persona. Si restituisce all'uomo la sua storia, quello che veramente conta nell'approcciarsi con il diverso da noi, a tutti i livelli. Fa quasi sorridere che proprio durante una visita che vuole sconfiggere ogni stereotipo, ritorna nelle frasi, nei racconti, nelle testimonianze, forte e tragicomico, lo stereotipo delle suore implacabili e crudeli, quelle che ordinavano l'elettroshock, che punivano i pazienti, che vessavano gli infermieri. L'unico gruppo dei quattro tra i quali sembra non emergere nessuna individualità positiva, uno stereotipo che nemmeno il mito di miss Pony in Candy Candy  è riuscito a scalfire dai lontani giorni dell'asilo, e che in questo caso sembra trovare la sua rassicurante conferma. 

Le installazioni, i documenti, i filmati, gli oggetti personali accatastati nella ricostruzione di quella che veniva definita "la fagotteria", ovvero il luogo dove i pazienti venivano spogliati di ogni effetto personale (che banalità sarebbe dire "e anche della loro dignità") per mettersi nella mani di un folle esperimento collettivo, tutto contribuisce a sorprenderci, emozionarci, farci sorridere (perchè no?) e prenderci a pugni. Ma forse l'effetto non sarebbe stato la stesso senza la preziosa presenza di Adriano Pallotta, il rivoluzionario infermiere di cui vi ho parlato. Lo rivediamo alternativamente tra i filmati e poi in carne ossa davanti a noi, a raccontarci le stesse storie e a trasmetterci la stessa emozione. Sembra quasi che sia un effetto voluto, in continuità con quel gioco di voci, immagini e parole che ritornano e rimbalzano da una stanza all'altra con risultati percettivi differenti. Adriano è sullo schermo, nella stanza, nel filmato multimediale, e di nuovo fuori a fumarsi una sigaretta e a scherzare con noi. Sto impazzendo davvero? Mi sono venuti gli occhi lucidi e questo in un museo non succede.

E' difficile rimanere lucidi e corretti parlando di una visita così emozionante. Chi si aspettava (chi mi ha chiesto) che aiutassi a far conoscere questo luogo straordinario raccontandolo con distacco e la giusta dose di politically correct rimarrà deluso. Sono certo che tornerò nuovamente, ancora e ancora, morbosamente attratto dal mistero della psiche, dalla percezione forte di un dolore vissuto (perchè siamo così?) e più semplicemente dalla normale attrattiva di un museo così ben organizzato e all'avanguardia, incredibilmente ancora troppo nascosto e sconosciuto. Come disse Basaglia ispirato dalle parole di un uomo che dopo anni di segregazione dal mondo era terrorizzato all'idea di "entrare fuori", è ora di far cadere le barriere mentali e fisiche per poter infine "entrare fuori e uscire dentro".
Se vi perdete questa visita siete dei pazzi, e affanculo il politically correct.


Il museo laboratorio della mente è situato nel padiglione 6 del comprensorio di S.Maria della Pietà, in Piazza S.Maria della Pietà 5, ed è visitabile dal lunedì al venerdì tra le 9:00 e le 17:00 e il sabato tra le 9:00 e le 13:00. Ingresso 5 euro, tel.0668352927. 

Ringrazio Antonella per avermi fatto conoscere questo posto, Alessandro Rubinetti per avermici portato fisicamente in una delle sue passeggiate teatrali e Adriano Pallotta (chiedete di lui) per i suoi racconti e la sua grande umanità.


sabato 21 settembre 2013

Dice che Poussin si è portato il segreto nella tomba. Letteralmente.

In una Roma che può essere a ragione considerata anche capitale dei misteri, persino un semplice monumento funerario custodito all'interno di una chiesa, così come ce ne sono a centinaia, può trasformarsi in una meta affascinante alla fine di un percorso lungo secoli. Percorso intriso al tempo stesso di arte, umanesimo e improbabili congetture fantastoriche. La nostra tappa sarà la chiesa di San Lorenzo in Lucina, dove in questo caso saremo costretti a distogliere lo sguardo da tutte le sue bellezze artistiche, per concentrarci sul misteriosissimo sepolcro posto sulla destra della navata principale. Trattasi della tomba del grande artista Francese Nicolas Poussin, la cui visione potrebbe procurare un improvviso deja-vu agli appassionati di arte del Seicento, o molto più realisticamente e terra terra a tutti quegli indomiti e impenitenti spettatori del programma televisivo "Voyager". Di fronte a noi un sepolcro, un'iscrizione e un bassorilievo a rappresentare l'opera piu' celebre del nostro pittore: ET IN ARCADIA EGO! Ma da dove parte questa storia?

Nel 1625 giunge a Roma la regina Cristina di Svezia, in seguito alla sua decisione di abdicare al trono come conseguenza della sua conversione al cristianesimo. Nonostante il suo apparente fervore religioso racchiuso in questa scelta, Cristina di Svezia si rivela in breve un personaggio ambiguo e allo stesso tempo "illuminato", e ben presto il suo salotto della residenza romana di palazzo Riario inizia ad essere frequentato dal fior fiore della cultura del tempo, cultura intrisa di esoterismo ed interessi alchemici, dove l'arte e la letteratura si mescolano a dissertazioni che in tempi neanche troppo lontani erano già stati causa della combustione di più di qualcuno (vedi Giordano Bruno). Ed è proprio all'interno di questo circolo culturale che successivamente, nel 1690, viene formandosi l'idea di costituire una vera e propria accademia artistico-letteraria in onore della defunta regina: l'Accademia dell'Arcadia. Il nome Arcadia è un tributo alla regione agreste del Peloponneso in Grecia che, ispirandosi al poeta Teocrito e alle bucoliche di Virgilio, diventa scenario ideale per una poesia classicheggiante, con per protagonisti pastori lamentosi che declamano idilli d'amore sprofondati nell'incanto di un'amena campagna. Una replica a sfregio al gusto barocco dell'epoca, considerato volgare e chiassoso, ma anche un ritorno alle origini di un paganesimo imbevuto di ermetismo e filosofie esoteriche. Ed ecco allora che tra pecore e sbadigli comincia a farsi strada un elemento sotterraneo, elemento legato all'Arcadia che fa la sua prima comparsa nel celebre quadro di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, in largo anticipo sulla costituzione dell'accademia (potete ammirarlo a Roma nella galleria Barberini).


Il soggetto rappresenta due pastori che, apparentemente smarriti in una selva oscura (beccateve la citazione), si imbattono in un sepolcro dove campeggia la scritta "Et in Arcadia ego". Un teschio in primo piano e varie bestie notturne fanno da corollario al concetto mortuario che, con la violenza di uno schiaffo, si inserisce a tradimento nell'atmosfera bucolica della campagna. A lungo i "complottisti" si sono interrogati sul significato simbolico del dipinto e di questa scritta, e taluni hanno maldestramente tentato la strada di un riferimento al misterioso sepolcro della Maddalena, secondo alcune mirabolanti teorie approdata in Europa e divenuta capostipite della stirpe dei re Merovingi in Francia (per chi avesse letto il codice Da Vinci sa di cosa parlo). A convalidare la delirante teoria il presunto foro sul teschio, praticato secondo la ritualità dei Merovingi come uscita di sicurezza dell'anima in punto di morte. Ebbene il foro si rivela ad un analisi neanche troppo accurata essere niente altro che una maledettissima mosca, tra l'altro magistralmente dipinta. Una versione più accreditata traduce la scritta con "E anche io (sono) in Arcadia" o meglio, "anche io, (la morte), sono in Arcadia", ovvero "anche in questo bel posticino prima o poi stirerete le zampe", quindi godetevela o comunque non illudetevi. Insomma il classico memento mori che rovina la festa. A questo punto vi starete chiedendo cosa c'entra Poussin e il suo sepolcro. Ebbene anche Nicolas Poussin, artista francese giunto a Roma, annovera nel suo curriculum artistico ben due versioni di "et in arcadia ego", sulla stessa linea del Guercino.






Anche sul presunto significato simbolico di queste opere si e' scatenato un vero e proprio marasma di congetture che rimandano nuovamente al tema dell'esistenza di una presunta tomba di Cristo e della Maddalena in quel di Provenza, in particolare nel piccolo e inquietante villaggio di Rennes Le Château (la Twin Peaks dei Pirenei), il cui paesaggio in molti hanno voluto riconoscere sullo sfondo della seconda versione del quadro. Secondo queste ipotesi "et in Arcadia ego" sarebbe un'anagramma di " I! Tego arcana dei!", ovvero "Te ne devi annà (vabbè concedetemi una nota romanesca)! Io celo i misteri di dio". Aldila' di tutto questo circo, dal quale Dan Brown ha attinto a piene mani per il suo "codice Da Vinci", e' comunque indiscutibile la presenza di una simbologia appartenente alla tradizione esoterica. Mettendo a confronto le due versioni, noterete come nella seconda i pastori appaiano meno sgomenti, la donna, ora in abiti classicheggianti, sembra quasi rassicurare i suoi compagni, ma soprattutto la fonte di Alfeo (il personaggio di spalle in basso a destra nella prima versione, che rovescia acqua da un vaso), fonte che secondo la tradizione esoterica molto in voga nel Seicento sta a rappresentare il fiume della conoscenza segreta, risulta essere ormai esaurita! (si nota comunque la frattura del terreno dove precedentemente si nascondeva). Significa forse che il segreto e' stato ormai rivelato? E chi era il custode di questo segreto? Il fatto piu' strano e recente intorno a tutta questa storia riguarda un certo Bérenger Saunière, abate del borgo di Rennes Le Château dal 1885 e secondo una certa letteratura fantastorica presunto scopritore del mistero del Graal. Questo ambiguo personaggio manifestò un interesse ossessivo per questo dipinto, tanto da volersene procurare ad ogni costo una copia in una specie di "caccia al tesoro" che gli fruttò una ricchezza improvvisa e mai spiegata. Ad oggi possiamo ancora notare gli sconvolgenti ed inquietanti cambiamenti effettuati proprio nel suo piccolo villaggio in seguito alla presunta scoperta di tale rivelazione.

Tornando al periodo di Poussin, ecco che ad  infittire il mistero entra in scena un nuovo personaggio, Nicolas Fouquet, intendente alle finanze alla corte del Re Sole in Francia. Grazie alla presenza di un suo fratello abate a Roma, tale Louis Fouquet, Nicolas si occupava tra l'altro di reperire in Italia opere d'arte destinate alla corte di Francia. Ecco il testo di una misteriosa lettera che l'abate Louis gli inviò da Roma:
Roma, 17 aprile 1656
"Ho reso al signor Poussin la lettera che voi gli avete fatto l’onore di scrivergli… lui ed io abbiamo progettato certe cose delle quali potremmo intrattenervi a fondo tra poco e che vi doneranno, tramite il signor Poussin, dei vantaggi (se voi non vorrete disprezzarli) che i re durerebbero grande fatica ad ottenere da lui e che, dopo di lui, nessuno al mondo scoprirà nei secoli futuri; e quello che più conta, ciò sarebbe senza molte spese e potrebbe perfino tornare a profitto, e si tratta di cose da ricercare così fortemente che nulla di quanto esiste sulla terra potrà avere migliore fortuna od esservi uguale".
Lo sventurato Nicolas fece in seguito una brutta fine, incarcerato a vita dallo stesso re Luigi XIV per presunti scandali finanziari (che coincidenza, vero?), mentre il re riusci' comunque ad entrare in possesso del quadro di Poussin, che venne conservato negli appartamenti privati di Versailles fino alla fatidica rivoluzione francese (oggi e' esposto al Louvre).

Quale segreto a conoscenza di Poussin avrebbe potuto procurare questi enormi vantaggi? E soprattutto, si faceva riferimento a vantaggi materiali, o all'acquisizione di conoscenze? (non dimentichiamoci il clima culturale dell'epoca, gli interessi esoterici e soprattutto alchemici). Di sicuro Poussin era consapevole di essere il custode di una qualche conoscenza, e ce lo dichiara apertamente in un suo celebre autoritratto, dove compare sullo sfondo l'immagine di una donna che indossa un copricapo sul quale campeggia il famigerato terzo occhio, simbolo della "conoscenza esoterica". Un sapere di tipo alchemico, o un segreto ancora piu rivoluzionario, che secondo le teorie che ruotano intorno al mistero di Rennes Le Château, avrebbe potuto scardinare gli equilibri della religione occidentale?
Ebbene proprio in questa chiesa, lungo quella stessa linea d'ombra attraverso la quale l'antica meridiana dell'imperatore Augusto indicava l'ora nona, a distanza di un secolo dalla sua morte e' stato eretto il monumento funebre in onore di Poussin. Il committente fu l'allora ambasciatore di Francia a Roma, Francois Rene' de Chateaubriand, Cavaliere dell'ordine del Santo Sepolcro (e te pareva che non uscivano fuori i Templari). La traduzione dell'epitaffio latino, attribuito a Pietro Bellori, bibliotecario di Cristina di Svezia, non potrebbe essere piu' eloquente: "Trattieni il pianto sincero, in questa tomba vive Poussin, che aveva dato la vita ignorando egli stesso di morire. Qui egli tace eppure, se vuoi sentirlo parlare, è sorprendente (come) VIVE E PARLA NEI (suoi) QUADRI".
Ed ecco ancora una volta "et in Arcadia ego" e i suoi pastori, stavolta in versione di bassorilievo, a trasformare il sepolcro di Poussin in quello stesso sepolcro scovato nei boschi dell'Arcadia, probabilmente custode di quegli stessi segreti. Il mistero è ancora aperto!

Per ripercorrere i passi di questa storia potete visitare:
Palazzo Riario, con gli appartamenti della regina Cristina di Svezia
La galleria nazionale di arte antica a Palazzo Barberini, con la tela del Guercino "et in Arcadia ego"
e chiaramente la chiesa di S.Lorenzo in Lucina con il sepolcro di Poussin.



martedì 9 luglio 2013

Dice che a S.Pietro assisteremo a un parto

"Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini" ovvero "quello che non fecero i Barbari, lo fecero i Barberini", e che si parli di devastazione risulta abbastanza evidente dalla natura del primo soggetto.
Con questa celebre "Pasquinata" si andava a colpire lo scellerato modus operandi della famiglia Barberini, consistente nello spoliare i più celebri monumenti dell'antichità, riutilizzandone i materiali per la costruzione di chiese e palazzi cardinalizi. In poche parole una trasformazione in sacro dell'elemento pagano, il tutto con una semplice operazione di riciclo palazzinaro (a loro discolpa si può dire che non furono i primi né gli ultimi).


L'attacco si rivolgeva in particolare a papa Urbano VIII, per gli amici Maffeo Barberini, il quale commissionò al suo artista di fiducia Gianlorenzo Bernini la fusione degli antichi bronzi che rivestivano la struttura del pronao del Pantheon, per farne un monumentale baldacchino da schiaffare nel cuore della nuova basilica Vaticana, proprio all'altezza del sepolcro dell'apostolo Pietro. Potremmo a questo punto giurare che il materiale bronzeo rappresenti l'unica componente di origine pagana dell'insigne opera d'arte? Per scoprirlo vi invito a (ri)visitare uno dei luoghi più conosciuti al mondo (confessate che non mettevate piede a S.Pietro più o meno dalla quinta elementare), questa volta con il proposito di  provare a "Guardare" veramente, per riuscire infine a scovare il lato "insolito" di un celebre monumento, celato nel pieno di un flusso turistico ai limiti del sopportabile. E se ritenete che la scena di un parto rappresentata nel cuore della basilica della cristianità universale sia una cosa sufficientemente insolita, allora avrete fatto bene a fidarvi.

Allontanando lo sguardo dall'architettura centrale del baldacchino e scorrendo la decorazione dei quattro piedistalli alla base delle colonne, ci accorgeremo infatti di come gli scudi con lo stemma del pontefice, esattamente come in una sequenza cinematografica, rivelino la sorprendente cronaca per immagini di un vero e proprio parto nelle sue diverse fasi. La lettura ha inizio dalla colonna frontale di sinistra e, seguendo il senso orario, si conclude sulla colonna frontale di destra. Un volto di donna, nascosto tra lo stemma e le chiavi di San Pietro, racconta di scena in scena il proprio travaglio attraverso le sue realistiche espressioni: dal volto contratto, alla sofferenza, al grido di dolore (con le probabili smadonne che le lettrici in particolare non faranno fatica ad immaginare), fino al sollievo post faticata con tanto di capelli appiccicati sulla fronte, mentre sull'ultimo bassorilievo troveremo al suo posto il volto paffuto di un cherubino, il bambino appena nato. Lo stesso scudo, stemma del pontefice Barberini guarnito con le sue immancabili api, diventa metafora di un ventre femminile, che coerentemente con l'espulsione sembra "sgonfiarsi" nel corso della sequenza (guardate l'ultimo e il primo in prospettiva tra loro). E non finisce qui! Un grottesco mascherone alla base nasconde la rappresentazione anatomicamente accurata degli stessi organi di riproduzione femminili.

Per secoli l'intera sequenza è stata snobbata, tanto che le prime osservazioni su questa presenza anomala si riscontrano solo a partire dal diciannovesimo secolo. Ma quale potrebbe essere il significato di questo racconto all'apparenza molto poco consono con il luogo? In soccorso arriva immancabilmente una certa aneddotica di stampo popolare, secondo cui il Bernini avrebbe messo incinta una nipote del Papa (nipote a quei tempi uguale figlia illegittima), il quale a sua volta si rifiutò di benedire l'unione provocando nello scultore il desiderio di questa piccola vendetta a sfregio. Alla versione "radio serva" si affianca l'ipotesi lacrimevole  di un poco credibile Urbano VIII, che volle celebrare la felice riuscita del parto, considerato a rischio, di una sua stretta parente. C'è infine la versione più tecnica, che fa riferimento a un parallelismo con i nove mesi di tempo occorsi al Bernini per realizzare lo splendido monumento. Ma era necessario tutto questo sfoggio di arte solo per dire" 'sto baldacchino è stato un parto"? In conclusione le storielle appaiono molto poco convincenti, mentre piuttosto risulterebbe sensato riportare il tutto ad una lettura più profonda.

In particolare faccio riferimento ad una precisa simbologia di stampo medievale, parte integrante del complesso rituale di insediamento del neoeletto pontefice in vigore fino agli inizi del Secolo XVI, in funzione della quale venivano utilizzati tre distinti sedili di epoca imperiale. Tra questi una sedia da parto (quindi forata al centro), sulla quale si dice che il papa dovesse accomodarsi assumendo la posizione da partoriente, al fine di simboleggiare il concetto di Mater Ecclesia (Madre Chiesa). Tutta questa pantomima, che ci appare indubbiamente grottesca e ridicola, va ricollegata in realtà a quell'universo simbolico tipicamente Medievale che oggi potremmo tranquillamente definire "terra terra". Le "raffinate" tecniche di comunicazione di massa utilizzate oggi (l'uso del "raffinato" è volutamente ironico), in assenza dei più efficaci mass media, avevano infatti al tempo la necessità di essere sostituite da ridondanti cerimoniali di grande gestualità, che potessero essere decodificati con estrema facilità dal popolo. Successivamente tale consuetudine iniziò ad essere ridicolizzata, in particolare negli ambienti più critici di provenienza Luterana, tanto che i suddetti sedili di epoca imperiale finirono per essere tramandati come "sedie col buco" atte a verificare la presenza degli "attributi" papali. Il tutto in conseguenza dell'episodio della celebre papessa Giovanna: il primo papa travestito (al contrario) che ebbe la sfortuna di farsi beccare, partorendo un bambino durante un corteo. Una leggenda che ebbe enorme risonanza nel corso di tutto il medioevo, e che nasconde un chiaro intento di propaganda anticlericale. Ad ogni modo, secondo questa degenerazione della leggenda, si asseriva che le sedie da parto avrebbero avuto la funzione di permettere a un giovane diacono di infilare la mano attraverso il buco fin sotto i paramenti del papa, ivi accomodato al momento dell'elezione, per verificare che fosse effettivamente un papa con le palle e non un'ennesima Giovanna (vi avevo avvertito che il Medioevo è terra terra).


Ritornando al nostro baldacchino è dunque possibile che, decaduta questa tradizione dell'uso simbolico del sedile, il Bernini, ma più probabilmente lo stesso papa Urbano VIII, uomo colto e amante della simbologia e dell'estetica, abbia voluto celebrare in maniera un tantino più raffinata rispetto allo svaccamento sulla sedia da parto il concetto di Mater Ecclesia. Ma non essendoci nessuna certezza tra le ipotesi, possiamo a questo punto permetterci di formularne qualcuna più personale. E' possibile che il Bernini abbia voluto fare riferimento a un concetto ben più potente e rischioso? Un elemento pagano di antichissima origine: il culto primordiale che ricorre nel passato comune di tutte le religioni conosciute. Sto parlando del culto della Madre Terra, il femminino sacro che ci riconduce alla Dea Madre. Un elemento femminile che proprio lì, nel cuore della cristianità universale, nel tempio di una religione dalla struttura profondamente maschilista, sarebbe apparso e ci appare tuttora come un azzardo, soprattutto in questa rappresentazione dai tratti così realistici. Ma in fondo siamo nel Seicento, secolo in cui si riscopre la centralità dell'uomo e i culti esoterici del passato, mentre l'arte e la letteratura si arricchiscono di antiche simbologie e codici nascosti. E il Bernini non era certamente estraneo a questo mondo. E se tutto questo è possibile, allora non dovrete certo stupirvi del fatto che, anche tra migliaia di turisti in sandali e bermuda, si possa ancora svelare un pezzo di quella Roma nascosta e misteriosa che così tanto ci affascina.


p.s
La ricerca di questo dettaglio è stata l'oggetto di una divertente caccia al tesoro per indizi alla quale avete partecipato in molti. La vincitrice Rosangela (sua è l'ultima foto), si è aggiudicata una copia di "Roma Fuoripista" (gli altri lo possono acquistare su www.romafuoripista.com o nelle librerie indicate sul sito). Per le prossime cacce al tesoro continuate a seguirmi sulla pagina facebook di Dice che a Roma.

martedì 4 giugno 2013

Dice che il grande Borromini era un Proto-Massone...(proto che?)

Quanti segreti si nascondono nei palazzi romani! E con questo non mi riferisco alle migliaia di strutture abusive assolutamente  mai sfiorate da condono edilizio, ma ai ben più rari tesori artistici e architettonici, gelosamente custoditi dietro gli imponenti portoni delle più belle residenze storiche del centro.
Tra questi il non sempre accessibile Palazzo Falconieri, sede della prestigiosa accademia d'Ungheria, dove mistero e bellezza si fondono in un architettura in cui ogni cosa sembra tendere verso l'alto. A partire dai due falconi in topless, volatile omaggio femminile alle rampolle della famiglia, che posti ai lati della facciata rivolta su via Giulia, fanno da sentinelle a questa antica residenza, passata di mano in mano tra le migliori casate fino a divenire nel Seicento proprietà della ricca famiglia fiorentina dei Falconieri. Famiglia che deve la sua fortuna al monopolio sul commercio del sale, una risorsa preziosa che, così come lascia intuire la tristemente celebre espressione "'sto conto è troppo salato", è sinonimo da sempre di grande ricchezza. La scalata al successo diventa quindi metafora di un'ascesa al cielo: il falco predatore dell'aria come stemma della famiglia, i misteriosi soffitti dalle simbologie massoniche che catturano lo sguardo verso l'alto, e un'altana sospesa nel vuoto da cui dominare con lo sguardo l'intera città.

E' proprio in questo palazzo che scopriamo gli aspetti più intimi e personali del grande genio del barocco Francesco Borromini. Di lui conosciamo la pittoresca rivalità col Bernini, tramandata da un'aneddotica che sconfina nel gossip tra dispetti e gelosie da primedonne, ma che li vedeva divisi soprattutto nel carattere. Il Bernini mondano e perfettamente a suo agio nella corte pontificia, tra feste, intrighi e lecchinaggi, il secondo introverso e solitario. Poco amato dai suoi allievi e probabilmente vittima di un profondo conflitto interiore che lo vedeva scisso tra una fortissima religiosità e una pari attrazione verso l'esoterismo e la simbologia occulta, molto di moda nei circoli culturali dell'epoca. Scalpellino dall'infanzia, membro attivo della corporazione dei muratori (associazione a cui si ispirò la massoneria nel secolo successivo, sia nella struttura organizzativa che nell'immagine coordinata: il simbolo della squadra e del compasso come antico logo e il mito della divinità suprema come grande architetto dell'universo), il Borromini resta ancora oggi un rompicapo intorno al quale si danno le interpretazioni più disparate sulla simbologia nascosta nei suoi capolavori.

Ma è proprio a Palazzo Falconieri che tutto diventa ancora più evidente, in un lavoro commissionatogli alla fine della carriera e della sua vita in un ambiente più intimo e familiare, proprio dal suo amico Orazio Falconieri, con il quale condivideva gli stessi interessi nel campo della mistica esoterica. Al Borromini si deve infatti l'elaborata decorazione a stucchi dorati dei salotti del piano nobile. Salottini piccoli, appartati, intimi, poco adatti alle grandi feste e certamente più appropriati per conversazioni private, riunioni elitarie di pochi appassionati alle discussioni allora tanto in voga sui temi dell'alchimia e dell'occulto. Tre cerchi intersecati tra loro e un grande sole posto al centro dominano la scena nel soffitto della prima sala. Il tre come trinità? Come numero perfetto? Il classico trittico per tutti i gusti "corpo/anima/spirito"? Lasciate per un momento da parte i misteri alla Dan Brown e soffermatevi piuttosto sull'aspetto ludico dell'opera. E come in un quiz della settimana enigmistica di 4 secoli fa divertitevi a scovare tutti gli animali, insetti e uccelli che il genio si è dilettato a mimetizzare nella ricchissima decorazione a girali di piante. Pesci, anatre e gechi vengono fuori dagli intarsi a stucco come nei migliori trip di gioventù. L'ironia del barocco che diventa inganno e ricerca, torcicollo e vertigini.


Nella sala seguente ripiomberemo nuovamente nella simbologia più ancestrale con il grande uroboro, il serpente che si morde la coda a rappresentare un ciclo infinito dove la fine corrisponde al principio. Ai due estremi un occhio che spunta fra i raggi, un globo percorso da meridiani e paralleli e un lungo scettro che partendo dall'occhio (da Dio o dal grande architetto?) si appoggia (governa) sul mondo. Tanta carne al fuoco per una lettura dai contorni esoterici i cui temi confluiranno nella nascente massoneria, che vedrà la luce solo agli inizi del secolo successivo. E da bravi profani rimarrete affascinati dalle suggestioni di una simbologia che ci riporta al potere, al mistero, all'occulto, alla materia e al paganesimo in quell'eterno quesito che continua a tormentarci da sempre: "ma alla fine che cazzo vor dì?".

Se siete stanchi di guardare a testa in su allora è il momento di cambiare prospettiva e dall'alto volgere lo sguardo verso il basso: tre piani di scale ci portano fin sulla loggia, e ancora più su, in quell'altana sospesa su Roma. Ben più in alto dell'antistante palazzo Farnese, volutamente più in alto dei propri vicini, in un moto d'orgoglio della nuova borghesia contro la vecchia nobiltà. Trecentosessanta gradi di una Roma mozzafiato abbracciata da un terrazzino ristretto e aperto all'infinito, dove gli spazi si fondono nella continuità dello sguardo di enigmatiche erme bifronti che si rivolgono contemporaneamente all'esterno e all'interno. Mi piace immaginare un riservatissimo Borromini autocompiacersi nel vedere svettare proprio lì di fronte la sorprendente cupola a spirale di S.Ivo alla Sapienza, il suo più grande capolavoro, di cui dal basso si fatica a trovare l'ingresso, ma che caratterizza nel modo più inconfondibile e originale qualunque veduta dai tetti della città. Percorrendo la scaletta a chiocciola d'accesso, quasi vengono a mancare i punti di riferimento, e la sensazione di elevarsi nel vuoto del cielo romano metterà alla prova anche i più immuni alle vertigini.
Artista profondamente tormentato, di lì a poco Borromini avrebbe lasciato la sua città d'adozione e il mondo con una morte spettacolare ed eccessiva proprio come il suo barocco. L'ultimo inganno di un grande maestro che, anche nel gran finale, lanciandosi da solo su una spada puntata ad arte da lui stesso contro se stesso, ha giocato per l'ultima volta con un'inversione della prospettiva. Di lui ci restano le facciate più originali di Roma e un motto condiviso dalla propria corporazione muratoria: "esporre segretamente e dimostrare silenziosamente". E questa sua ultima opera, esposta segretamente nell'intimità di una dimora privata, sembra esserne la più coerente conferma.

Palazzo Falconieri ospita oggi l'accademia d'Ungheria ed è visitabile in occasione di mostre o eventi speciali. I gruppi possono prenotare una visita su appuntamento (tel 066889671). In ogni caso tenetevi pronti che a settembre sarà una delle prossime tappe dei nostri "walk&brunch" alla scoperta della "Roma Fuoripista"