martedì 28 dicembre 2010

Dice che il paradiso costa caro

Quante volte percorrendo lungotevere Prati avrete notato le guglie di una chiesa incastonata tra palazzi ottocenteschi, che tanto ci ricordano una miniatura del celebre duomo di Milano. Stiamo parlando della chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, un gioiello neogotico della fine del secolo scorso che ospita al suo interno un piccolissimo e alquanto bizzarro museo: il museo delle Anime del Purgatorio, una singolare collezione che raccoglie le prove del passaggio e delle manifestazioni tra i vivi delle anime espianti dei defunti.
La storia di questo luogo ha inizio con un incendio avvenuto nel 1897, incendio che lasciò un segno indelebile su uno dei pilastri di una cappella andata distrutta e sulla psiche dello stesso sacerdote fondatore della chiesa, Victor Jouet. L'impronta lasciata dal fuoco sulla colonna sembrava infatti riprodurre le inquietanti sembianze di un volto, che subito il sacerdote interpretò essere quello di un anima sofferente del purgatorio che voleva in questo modo mettersi in contatto con i vivi. A partire da questo episodio il sacerdote iniziò la sua missione itinerante di ricerca, allo scopo di raccogliere prove e testimonianze lasciate dalle anime del purgatorio, che si fossero manifestate a parenti e conoscenti con la richiesta di preghiere di suffragio. Il meccanismo del suffragio è molto semplice: quanto più si prega per queste anime condannate, più la pena viene scontata e le stesse si avvicinano al paradiso (potrebbe essere un interessante format di gioco per la Nintendo WII in cui i giocatori si sfidano per far ascendere il proprio avatar digitale in paradiso, recitando preghiere con la massima intensità possibile).

In ogni caso padre Jouet riuscì a raccogliere durante i suoi viaggi una decina di cimeli, oggi gelosamente custoditi nell'attuale sacrestia della chiesa. L'accesso è gratuito e in genere non c'è mai anima viva (vi garantisco che questa stupida battuta è involontaria), ma sono certo che non potrete fare a meno di lasciare un offerta al custode, considerato che in questi casi anche l'essere più razionale e meno superstizioso del pianeta penserà che sia meglio essere generosi perchè comunque " nun se sa mai".


A questo punto sarete introdotti in una piccola stanzetta, dove in una vetrina appesa alla parete avrete modo di ammirare i frutti della ricerca del sacerdote. Si tratta prevalentemente di tracce lasciate dalle anime dei defunti sotto forma di impronte e bruciature su oggetti e indumenti come prova della veridicità della loro apparizione, allo scopo di convincere i propri cari a pregare per loro con maggiore frequenza e intensità. Un foglio stampato in più lingue, messo a disposizione dei visitatori, vi permetterà di conoscere la storia e la provenienza di ognuna di queste testimonianze (non tutte originali). Prima fra tutte è la fotografia che riproduce l'immagine del volto rimasto impresso dopo l'incendio del 1897 e che diede il via alla collezione. Seguono poi impronte di fuoco su libri di preghiere, tonache, bibbie, camicie e persino berretti da notte.

Singolare la storia di Suor Maria di S. Luigi Gonzaga, costretta ad espiare in purgatorio le sue colpe per aver avuto in vita un moto di impazienza causato da due anni di atroci sofferenze da tisi. Dopo la sua morte, "erroneamente" e "colpevolmente" agognata,  apparve nel 1894 a tale suor Margherita del Sacro Cuore, alla quale, nel richiedere preghiere di suffragio per abbreviare il suo soggiorno purgante, lasciò come prova della sua apparizione una bruciatura sulla federa del cuscino effettuata con il dito indice. In seguito tornò per ringraziare, avendo però questa volta l'accortezza di risparmiare la biancheria della solerte collega.


Altro oggetto interessante è la fotocopia di una banconota da 10 lire, i cui originali sono conservati presso il monastero di S. Leonardo di Montefalco. Questa banconota ci introduce la storia di un sacerdote defunto che scelse per la sua salvazione una via alternativa e molto più convincente rispetto all'opzione di lasciare bruciature in giro (e non biasimo la scelta visto che a me personalmente una ditata di bruciato sulla camicia potrebbe farmi uscire di bocca quanto di più lontano da una preghiera). La storia racconta di ben 28 manifestazioni che ebbero luogo nel monastero di S. Leonardo a Montefalco, nel corso delle quali la facoltosa anima espiante lasciò ogni volta delle banconote per le Clarisse del convento attraverso la ruota della sacrestia, richiedendo in cambio messe di suffragio e preghiere di salvazione. In poche parole una sorta di tentativo di corruzione dall'oltretomba. Gli atti originali del processo e la deposizione di 12 testimoni, tra cui la badessa del monastero, convergono tutti verso la conclusione che la manifestazione fosse degna di fede.
Sono certo che questa storia rassicurerà enormemente il nostro attuale premier riguardo la sua sorte ultraterrena, in quanto conferma della piena riproducibilità ed efficacia dei metodi a lui consoni sulla terra anche nel contesto spirituale, per ottenere l'agognata ascesa in paradiso.
 Che ci crediate o meno (e spero abbiate perdonato la mia eccessiva ironia) il luogo e l'esposizione sono indubbiamente suggestivi e ci portano nuovamente in uno di quegli angoli nascosti della nostra città pronto a raccontarci delle storie lontane anni luce dal nostro quotidiano.
E se vi state chiedendo se è proprio da qui che venga il celebre detto Romano "l'anima de li mortacci tua" apostrofato verso colui che vi brucia il sedile della macchina con la cenere di sigaretta..ebbene no.. questa è un'altra storia!

La chiesa del Sacro Cuore del Suffragio è in Lungotevere Prati 12 ed è visitabile tutti i giorni dalle 7:00 alle 11:00 e dalle 16:30 alle 19:00.

mercoledì 22 dicembre 2010

Dice che questo già lo sapevamo: l'effetto ottico der cuppolone

Pur avendo giurato a me stesso che giammai avrei trattato dello sputtanatissimo buco della serratura sull'Aventino da cui si scorge la cupola di S. Pietro, mi trovo costretto a fare un eccezione per questo luogo altrettanto conosciuto fra le curiosità di Roma, con protagonista il medesimo celeberrimo cuppolone: Via Piccolomini e la sua famosa illusione ottica. Questa concessione al blockbuster delle curiosità Romane è dovuta al semplice motivo che, anche dopo aver sperimentato e mostrato l'effetto decine e decine di volte, la reazione di sorpresa e meraviglia è rimasta immutata nel tempo, per non parlare poi del fatto che questa via meriterebbe una menzione speciale solo per essere l'unica strada di Roma che molti di noi hanno percorso almeno una volta conducendo la macchina con la testa girata di 180 gradi, per apprezzarne al meglio l'effetto ottico in movimento (ai più cauti consiglio di guardare nello specchietto retrovisore).
Vista l'esiguità di questa visita, che consiste in un tragitto di circa 50 metri da effettuare in meno di trenta secondi, mi troverò costretto ad annoiarvi con una breve introduzione storica sulla cupola di S.Pietro e sulla sua reticenza a lasciarsi ammirare dall'omonima piazza del Bernini. Quella perenne insoddisfazione dei turisti che scattano foto sulla piazza davanti alla basilica  senza la speranza che possa scorgersi alle loro spalle qualcosa in più di 10 striminziti centimetri di cupola, è infatti conseguenza diretta di alcuni precisi dettami del concilio di Trento del 1563 in materia di architettura sacra, secondo cui nella costruzione di chiese e basiliche si sarebbe dovuta privilegiare la scelta di una pianta longitudinale a croce latina (con il braccio principale più allungato) rispetto a quella di una pianta quadrata a croce greca (quattro braccia di uguali dimensioni).
 

Tutto ciò pose fine ai dibattiti e alle scelte contrastasti dei vari famosissimi architetti che si succedettero nella realizzazione del progetto, previsto originariamente dal Bramante con base a croce Greca, e così sostenuto in seguito anche da Michelangelo. Seguendo le direttive del concilio l'architetto Carlo Maderno ebbe infatti la meglio su questi illustri predecessori, e con l'allungamento del braccio centrale realizzò infine la sua facciata in stile classico posta molto più in avanti rispetto al resto della struttura: da questo ne conseguì la quasi totale mancanza di visibilità della cupola a distanza ravvicinata. La piazza venne progettata in seguito dal Bernini proprio allo scopo di riequilibrare questo avanzamento.

Dopo aver provato a scattare una foto alla cupola senza successo maledicendo il concilio di Trento, vi consiglio a questo punto di allontanarvi dalla piazza, dalla strada e dal quartiere e di recarvi a via Piccolomini sull'Aurelia antica per rifarvi con una visuale decisamente più maestosa e soddisfacente del famoso cuppolone. 
Vi consiglio di portarvi all'inizio della strada all'altezza della rotatoria dove avrete modo di ammirare tra le due file di palazzi residenziali che costeggiano la via, l'imponenza della struttura che sembra essere proprio a pochi passi da voi (anche l'effetto notturno non è da sottovalutare). Per i pochi che ancora non conoscono il trucco è il momento di muoversi in direzione di S. Pietro, evitando possibilmente di schiantarvi a metà percorso per non aver rispettato lo STOP messo da qualche genio della circolazione stradale proprio a metà di questo rettilineo. Tenendo lo sguardo fisso sulla cupola vi accorgerete che pur andandogli incontro le dimensioni della stessa si ridurranno rapidamente fino a quando, giunti alla fine del tragitto, vi renderete conto di come il vostro obiettivo sembri infine piccolissimo e lontano. Ripetete il percorso al contrario (il conducente è esonerato dalla visione per l'incolumità degli altri passeggeri) e allontanandovi nuovamente fino all'altezza della rotatoria assisterete al verificarsi del fenomeno all'inverso, che riporterà l'imponente struttura a dominare di nuovo tutta la visuale.


Qual'è la spiegazione di questo sorprendente effetto? La prospettiva incorniciata dai palazzi rende la visuale della cupola libera da qualsiasi altro tipo di confronto, in poche parole non scorgendosi il contesto intorno, per una sorta di gioco cognitivo la nostra mente viene ingannata sulle dimensioni reali dell'oggetto in questione. Mano a mano che si procede in avanti il campo visivo tra i palazzi comincia ad includere tutti gli elementi di contorno del paesaggio. In questo modo, grazie ai raffronti con il contesto ormai visibile che circonda S. Pietro, il cervello riesce a rielaborare le dimensioni effettive dell'oggetto e l'informazione viene infine  trasmessa correttamente all'occhio. Non so se ci avete capito qualcosa, ma non è importante ai fini del gioco che, se ancora non siete stati a Roma,  vi consiglio di andare a sperimentare di persona.

In questo caso non ci sono orari ne biglietti da pagare..quindi attenti allo STOP e buon Natale a tutti!

mercoledì 15 dicembre 2010

Dice che il chiostro nasconde un mistero


Avevo promesso che saremmo tornati a parlare del simbolo della triplice cinta e del suo indecifrabile significato, e l'occasione ci viene offerta questa volta dal suggestivo monastero fortificato dei SS. Quattro Coronati al Celio. Ci troviamo infatti a visitare una delle più importanti basiliche medievali della città, un isola fuori dal tempo al centro di Roma dove ancora oggi sopravvive la misteriosa e affascinante realtà della clausura. La chiesa viene già menzionata nel 595 D.C. con il suo attuale nome, ma solo a partire dal 1138, quando venne affidata ai monaci Benedettini, il complesso cominciò ad assumere l'attuale aspetto con la costruzione del monastero, del chiostro e della cappella di S. Silvestro. Tutta la struttura venne infine affidata alle suore Agostiniane che ancora oggi la custodiscono e con le quali avremo occasione di interagire nel corso della visita. A questo proposito preparate gli spicci.


Se vi state chiedendo chi siano questi Quattro Coronati, sappiate che c'è una gran confusione in merito che coinvolge l'esistenza di ben due gruppi di martiri: il primo formato da quattro soldati romani martirizzati per ordine di Diocleziano (identificati con un generico Coronati in quanto solo successivamente se ne scoprì il nome), e il secondo da cinque scultori che vennero giustiziati due anni dopo per essersi rifiutati di scolpire la statua di un idolo pagano. Entrambi i gruppi vennero seppelliti in questa stessa basilica, e mentre tutti si dimenticarono dei poveri cinque scalpellini, i quattro soldati ne presero erroneamente il posto e i meriti artistici divenendo in questo modo i santi protettori degli architetti e dell'arte muratoria. Proprio perchè veneratissimi nell'ambito delle corporazioni medievali di muratori e scultori, antiche associazioni che precedettero la costituzione della massoneria, ad oggi ritroviamo il loro culto inserito negli statuti delle attuali confraternite massoniche europee (squadra e compasso vi dicono niente?). Praticamente dei santi massoni!
Vi consiglio di attraversare il cortile lasciando l'ingresso dell'oratorio di San Silvestro alla vostra destra e di entrare direttamente all'interno della chiesa, dove vi ritroverete catapultati in pieno medioevo tra resti di affreschi del XII secolo e l' originale pavimentazione in opus alexandrinum. La porta situata a metà della navata sinistra è l'accesso privilegiato che vi condurrà all'interno del più suggestivo chiostro medievale della nostra città. Dopo aver suonato il campanello potrete attendere che la suora venga ad aprirvi intrattenendovi in buona compagnia della testa mozzata di S.Sebastiano, conservata come macabra reliquia nell'altare a lui dedicato a pochi passi da voi.


Una volta ammessi in questo meraviglioso luogo senza tempo (un fiorino) avrete modo di ammirare lo splendido chiostro duecentesco, dove troverete ad attendervi due curiosità che solo a pochi osservatori e a chi avrà letto davvero questo post dicendomi "sì sì interessantissimo!!" con cognizione di causa, salteranno all'occhio. La prima è un incisione sulla lastra di marmo fra le due colonne del chiostro poste esattamente davanti all'ingresso, riproducente una curiosa tavola numerica. Secondo ipotesi ancora discusse potrebbe trattarsi di uno schema di gioco a punteggio, dove i punti venivano probabilmente assegnati facendo ruotare un tappo di sughero sulla superficie nell'attesa che si fermasse indicando un numero (colonne a punteggio minimo si alternano a colonne a punteggio massimo). Un' altra plausibile alternativa è che possa invece trattarsi di una sorta di regolo calcolatore.


La seconda curiosità è la presenza di un incisione della famosa triplice cinta di cui già abbiamo parlato a proposito della struttura architettonica della chiesa di S.Stefano Rotondo, motivo per il quale vi consiglio di andarvi a rileggere il post!!  Come vi accennai a suo tempo, questo misterioso simbolo è stato ritrovato inciso fino al 1300 nei luoghi più disparati (piazze, usci di casa, chiese, chiostri e grotte sotterranee) senza che ne sia mai stato compreso veramente il significato e l'origine. Abbiamo parlato della simbologia del tre e delle sue possibili valenze esoteriche che ritroviamo nella progettazione di importanti strutture architettoniche circondate da una triplice cerchia di mura (castelli o città), ma soprattutto abbiamo visto come lo schema riproponga fedelmente quello del gioco del filetto, il che suggerisce anche in questo caso l' innocente ipotesi dello schema di gioco inciso sulla pietra a questo semplice scopo.


Ma noi, che siamo amanti dei misteri e dei complotti dei templari (a cui ormai attribuisco anche le le notifiche di mancato pagamento delle multe scadute per conto di equitalia), rifiuteremo con decisione la versione ludica della spiegazione di questo simbolo, che pretenderebbe di ridurre il tutto ad una partita a filetto tra frati ed operai in un momento di pausa dalle loro occupazioni. A parte il fatto che non vedo perchè un frate dovrebbe incidere il muretto del chiostro per una partita a filetto, neanche fosse uno scolaretto di seconda media che sfregia il banco col compasso, tale versione è messa in dubbio dalla presenza degli stessi simboli ritrovati anche su superfici verticali o oblique che renderebbero impossibile questo tipo di utilizzo. Più interessante l'ipotesi secondo cui tale schema di gioco potesse essere veicolato come codice criptato per la comunicazione di specifici e a noi ignoti messaggi (i templari sicuramente!). E' comunque strano che non ne venga più rilevata la presenza a partire dal 1300 e desta curiosità il fatto che molti di questi simboli vennero volutamente rimossi con il sopraggiungere del cristianesimo. Quale che sia il segreto di questo misterioso segno,  non starò qui ad indicarvi il punto esatto in cui potrete scovarlo, in primo luogo perchè spero che troverete divertente questa piccola ricerca, e in secondo luogo per non essere l'unico ad aver fatto cento giri di chiostro scrutando ogni centimetro di superficie marmorea sotto lo sguardo preoccupato della suora custode.

Una volta scoperta la triplice cinta in tempi ragionevoli e dopo esservi chiesti "e mò?" senza ottenere risposta sensata, vi invito a godere dell'irreale silenzio di questo magico luogo, rotto solo dallo scorrere dell'acqua della fontana  (una suggestiva fontana per abluzioni del XII secolo), dove ancora una volta riuscirete a sorprendervi di come al centro di questa amata e odiata metropoli possano ancora trovarsi degli angoli nascosti così fuori dal tempo.


Usciti dal chiostro e dalla chiesa sarà il momento di andare ad ammirare l'oratorio di San Silvestro, che in virtù dei suoi affreschi medievali è stato a ragione definito come la cappella sistina del medioevo.
Dopo l'ennesima scampanellata la suora receptionist dietro la grata vi passerà la chiave per accedere al suo interno (un fiorino). Dopo aver provato il piacere di entrarvi per vostra stessa mano infilando la chiave nella serratura, potrete finalmente ammirare un intero ciclo pittorico sulla vita dell'imperatore Costantino e di come papa Silvestro lo salvò dalla lebbra attraverso il battesimo. Tale episodio ci riporta alla più grande fregatura della storia della chiesa rappresentata dall'editto Costantiniano, documento con il quale il papa sarebbe stato ricompensato per il suo miracolo con la concessione, da parte dello stesso Costantino, della sovranità temporale su Roma, l'Italia e tutto l'impero d'occidente. Tale pezzo di carta, sventagliato dalla chiesa nel medioevo come prova inoppugnabile del proprio diritto ad esercitare la sovranità assoluta contro gli imperatori, si rivelò in seguito un clamoroso falso postumo inventato di sana pianta. I paraculissimi affreschi servirono dunque come vera e propria propaganda politica per rievocare questo episodio proprio quando nel 1246 lo scontro tra papato e impero si fece nuovamente aspro tra Federico II e e papa Innocenzo IV, che proprio tra le mura di questo monastero fortificato si rifugiò per salvare la pelle. 
Ammirare nel silenzio di questa cappella la bellezza degli affreschi completamente immersi nell'atmosfera del tempo è un esperienza che vi porterete dietro anche una volta usciti.
Riscendendo verso il colosseo, e precisamente al numero 128 di Via S.Giovanni in laterano, vi straconsiglio una vera rosticceria napoletana dove con un eccellente rapporto calorie/prezzo  potrete riprendervi dall'atmosfera mistica del monastero tra pizze fritte, panini napoletani e pastiere.

La basilica si trova in via dei SS. Quattro 20 e Il chiostro e l'oratorio sono visitabili dal lunedì al sabato dalle 9:00 alle 12:00 e dalle 16:30 alle 18:00.

giovedì 9 dicembre 2010

Dice che il giardino del paradiso sta giusto dietro ar kebabbaro

Ho scelto di condividere con voi la prima dritta gastronomica di questo blog partendo da terre e sapori lontani: mettete quindi da parte per un giorno code alla vaccinara, amatriciane e trippa alla romana e preparatevi alla scoperta della più autentica cucina Mediorientale della città. Siamo al confine tra quartiere Monti ed Esquilino e il locale che vi invito a scoprire è lo "Shawarma Station" di Via Merulana: non è un ristorante e non è nemmeno il classico kebabbaro take away, di quelli che spuntano in ogni angolo di Roma riciclandosi all'occorrenza come pizzerie al taglio.
"Shawarma station", punto di riferimento della locale comunità Mediorientale (la cui cospicua presenza è certamente garanzia di originalità) è infatti una specie di mensa o tavola calda, dove muniti del vostro bravo vassoio potrete scorrere lungo il bancone scegliendo e sperimentando tra un invitante varietà di autentici piatti della tradizione. Il posto è conosciuto come Libanese, ma il personale e le ricette spaziano dall' Egitto alla Siria. Per questo motivo, con la stessa innocente scioltezza con cui categorizziamo sotto la voce "er cinese" qualsiasi titolare di occhio a mandorla, dal Thailandese al Vietnamita, passando per il monaco Tibetano, propongo quindi di rimanere sul vago riferendoci a quest'ottimo locale di cucina etnica con un generico "dall'arabo".


Se siete stanchi del classico kebab (e ve ne perdereste uno veramente ottimo) potete sempre scegliere di provare tra le altre cose il migliore hummus che possiate trovare a Roma (crema di ceci), degli ottimi warak dawali  (involtini di riso in foglie di vite), un abbondante porzione di felafel o diverse varietà di riso (consigliato quello con mandorle e uvetta) e cous cous. Per concludere infine con un'interessantissima scelta di dolci. La saletta che vi accoglierà per farvi accomodare dopo il pagamento di un conto sorprendentemente basso, vi catapulterà al centro di un'autentica ambientazione da vera bettola turca o libanese. E se qualcuno dei vostri commensali, che avrete portato a forza per colpa dei consigli del sottoscritto, proverà a storcere la bocca, potrete tranquillamente affermare senza paura di essere contraddetti che comunque "è un sacco tipico". In ogni caso sono certo che nessun amante di questo genere di cucina potrà rimanere deluso.

Una volta saziato il vostro appetito, il muso unto di hummus e il kebab che continuerà a riproporsi inesorabilmente nel corso della giornata, daranno la giusta continuità tematica alla visita, appena dietro l'angolo, del più grande esempio d'arte Bizantina presente a Roma: la cappella di S. Zenone, definita giardino del paradiso per la ricchezza dei suoi mosaici, e la cui contemplazione vi trasporterà immediatamente nelle atmosfere della ricca Bisanzio. Questo vero e proprio capolavoro artistico è situato all'interno della basilica di S. Prassede, una chiesa che troverete interessante, oltre che per la suddetta cappella, anche per la sua truce storia e due singolari curiosità.
La basilica venne edificata nell'818 per volere di papa Pasquale I allo scopo di accogliere le reliquie della santa, sui resti di un preesistente titulus praxedis: una sorta di chiesa privata che corrispondeva all'abitazione della famiglia di Prassede dove venivano accolti e battezzati i cristiani perseguitati nel II secolo A.C.


La biografia della santa ci è stata tramandata attraverso uno dei cosiddetti ”passionari” Romani del V secolo, fantasiose biografie di martiri che conobbero larga diffusione nell’alto medioevo come letture edificanti e spunti di riflessione per i fedeli del tempo, evidentemente appassionati di letteratura pulp. La leggenda si tinge immancabilmente di rosso nel momento in cui, durante l' ennesima ondata persecutoria, l'imperatore Antonino Pio ordina la strage di un buon numero di cristiani, accoliti della chiesa di Prassede. Cosa fa la santa a questo punto? Pensa bene di raccogliere devotamente con una spugna tutto il sangue versato dalle vittime del martirio e gettarlo come reliquia (insieme ad altri resti umani) nel pozzo della sua chiesa/abitazione.
Un disco di porfido rosso all'inizio della navata centrale sta proprio ad indicare il punto in cui era situato il pozzo (e secondo altre versioni lo stesso disco è il coperchio con cui venne sigillato) dove la Santa soleva strizzare la sua spugna intrisa del sangue dei martiri uccisi. A questo punto è lecito chiedersi cosa sarebbe successo se a quel tempo fossero esistiti i frigoriferi e soprattutto se la santa ne avesse posseduto uno, ma prima di inoltrarci in questi scenari da mente criminale con il rischio di esporre questo blog ad irrevocabile oscuramento, ma soprattutto  per evitare di ritrovarci Bruno Vespa con il plastico della casa di Prassede (e relativo pozzo) nella prossima puntata di porta a porta, lascerei in sospeso l’argomento e vi inviterei a scoprire piuttosto le meraviglie di questa basilica.


Di sicuro impatto è il ciclo di mosaici che nella zona del presbiterio rivestono il catino absidale, l'arco absidale e l'arco trionfale della chiesa. Se con questo pensate di trovarvi di fronte ad una delle più pregevoli espressioni dello stile Bizantino Romano, aspettate allora di ammirare l'interno del cosidetto "sacello" di san Zenone, la piccola cappella che si apre sulla navata destra della basilica. La cappella fu dedicata dallo stesso Papa Pasquale I all'omonimo martire in onore della defunta madre Teodora. Completamente rivestito di mosaici, il sacello di S. Zenone rappresenta il più prezioso esempio di arte bizantina originale presente a Roma, e proprio in virtù della ricchezza delle sue decorazioni è conosciuto come giardino del paradiso.
Vi consiglio di arrivare muniti di moneta da cinquanta centesimi, un piccolo obolo che vi darà modo illuminare i mosaici per goderveli in tutto il loro splendore, ed evitare così di fare le poste alla turista giapponese di turno nell'attesa che apra per voi il suo borsellino di Hello Kitty. Potreste rimanere ore ad ammirare ogni singolo dettaglio di questo incantevole, minuscolo spazio.

L'ultima sorpresa la troverete nella nicchia che si apre alla destra del sacello e che è a sua volta collegata alla navata centrale. Al suo interno è infatti custodita nientedimeno che una porzione della colonna della flagellazione di Cristo, trasportata a Roma direttamente da Gerusalemme nel 1223.
A questo punto bisognerebbe aprire un intero capitolo sul culto e il commercio delle reliquie diffusissimo in tutto il medioevo, fatto nella stragrande maggioranza dei casi di falsi e pacchi clamorosi (il monastero o la chiesa detentrice di reliquia - testa, unghia o mignolo sinistro che sia - entrava infatti nel circuito dei pellegrinaggi sviluppando in questo modo il proprio "business turistico" e le conseguenti entrate finanziarie) . Basti pensare alle migliaia di frammenti della croce sparsi in tutte le chiese del mondo che da soli sarebbero sufficienti per costruire una copia in legno a grandezza naturale della torre Eiffel. Ma a noi, che come i pellegrini di un tempo vogliamo lasciarci affascinare da questi oggetti intrisi di leggenda, piace pensare che effettivamente, qui a due passi dal kebabbaro più buono di Roma, sia conservata una parte della colonna originale dove Gesù in persona subì il maritirio della flagellazione.
Alla fine del giro, una volta usciti da questo scrigno di tesori e di arte bizantina e con il kebab ancora ben piazzato sullo stomaco, sono certo che ricorderete questo connubio tra shawarma e mosaici come il vostro breve e personalissimo viaggio nelle atmosfere di Istanbul al centro di Roma.
E soprattutto a meno di 10 euro, monetina da 50 centesimi inclusa!
Shawarma Station si trova in Via Merulana 271 ed è aperto tutti i giorni (prezzo medio meno di 10 euro).
La chiesa di Santa Prassede ha invece il suo in ingresso in via di S.Prassede 9/a ed è visitabile dalle 7:30 alle 12:30 e il pomeriggio dalle 16:00 alle 18:00
Vista la prossimità con Piazza Vittorio (vedi post precedente) vi consiglio vivamente di unire le due cose. 

lunedì 6 dicembre 2010

Dice che a Piazza Vittorio c'è la formula magica (e che MAS è meglio de Harrods)

Oggi vorrei iniziare con una domanda. Cosa ci fanno i caratteristici portici delle piovose città del nord Italia in una piazza Romana? Quale potrebbe essere la loro funzionalità in quest'oasi di clima mediterraneo? In realtà, dopo venti giorni consecutivi di pioggia, verrebbe invece da chiederci perchè con i portici non ci abbiano tappezzato l'intera capitale, ma in questo caso la risposta non ha a che fare con il clima. La progettazione di Piazza Vittorio risale infatti alla fine dell’800, quando il quartiere Esquilino venne messo in piedi ex novo per ospitare la borghesia impiegatizia statale, che si trasferì da Torino a Roma nel momento in cui le due città si passarono il testimone di capitale d'Italia (passando per Firenze). Ecco quindi spiegato il perchè della presenza di un intero quartiere “Torinese” al centro di Roma, che con i suoi portici e le sue eleganti architetture da capitale Europea, riproponeva la struttura urbanistica dei luoghi d'origine di questa nuova generazione di burocrati del regno.


Oggi l'Esquilino è meglio conosciuto come la Chinatown di Roma o più sbrigativamente come la zona della stazione, e viene spesso snobbato come meta di una possibile visita. Vi invito quindi ad una passeggiata (preferibilmente un sabato mattina), per assaporare la vitalità di piazza Vittorio e per un paio di vere chicche.
Sapevate ad esempio che proprio nei giardini della piazza si nasconde la formula alchemica che permette di trasformare la vile materia in oro? Direi che questo sembra già un motivo sufficiente per mettersi in moto.
Se la vostra tabella di marcia prevede un alzataccia mattutina, avrete persino il privilegio di assistere ad una delle quotidiane lezioni di Tai Chi che si svolgono all'interno del parco, i cui lenti ed ipnotici movimenti di gruppo vi riporteranno all'atmosfera di una vera città Asiatica. 
Una volta che avrete scelto la vostra panchina, vedrete sfilare davanti a voi famiglie, coppiette e spacciatori di ogni età e provenienza, con le loro centinaia di storie tutte diverse. Godersi in tranquillità l'atmosfera del posto è un esperienza estremamente piacevole, meglio ancora se in compagnia di un bel libro a tema come “scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” di Lakhous Amara, che vi aiuterà a comprendere meglio lo spirito del quartiere.
Dopo esservi riconciliati con il mondo (nel vero senso della parola, dal Bangladesh al Marocco), potrete spostarvi verso il gruppo di rovine situato nell’angolo nord ovest dei giardini, dove scoprirete uno dei più misteriosi e tuttora indecifrabili monumenti della città: la cosiddetta porta magica.


La porta, risalente alla fine del 600, apparteneva ad una delle magnifiche ville che prima dello sventramento “Piemontese” popolavano quest'angolo di campagna Romana, e precisamente alla villa del Marchese Massimiliano Palombara. Trasferita e risistemata all'interno del giardino, la porta magica rimane l'ultimo elemento architettonico sopravvissuto alla demolizione dell'edificio del Palombara. Il marchese era un assiduo frequentatore della corte Romana della regina Cristina di Svezia a palazzo Riario, a sua volta appassionata di scienze e alchimia, e all'interno del cui palazzo era ospitato un avanzato laboratorio di esperimenti. La leggenda racconta che un pellegrino si fosse fermato una notte nei giardini della villa alla ricerca di una particolare erba, che lo avrebbe aiutato ad ottenere la mitica formula per la trasformazione della materia in oro. Al mattino il misterioso personaggio (identificato secondo alcuni col giovane medico e alchimista milanese Giuseppe Borri) sparì oltre una di queste porte lasciandosi dietro alcune pagliuzze dorate e dei fogli scritti a mano, contenenti indecifrabili formule, simboli magici e annotazioni.


Il marchese fece quindi incidere quegli stessi simboli e quelle enigmatiche frasi sui muri e sulle cinque porte di Villa Palombara, affinchè qualcuno un giorno potesse essere in grado di interpretarli. La storia è leggermente diversa, ma non cambia il fatto che tali simbologie si ritrovano in tutti i libri di alchimia e filosofia esoterica diffusi in quel periodo, e che certamente erano conosciuti e studiati dal marchese di Palombara (a partire dal bassorilievo che sormonta l'architrave, simbolo della confraternita dei rosacroce di cui egli faceva sicuramente parte).
A guardia della porta noterete due statue grottesche rappresentanti la divinità egizia Bes, una sorta di demone nano venerato dagli Egizi ( e il cui culto si diffuse anche a Roma) per contrastare il malocchio e le sciagure.
Purtroppo la porta magica è oggi circondata una cancellata che ne rende impossibile la visione a distanza ravvicinata, impedendo quindi l'osservazione delle numerosissime iscrizioni riportate. Tra queste ne cito una: "Horti magici ingressum hesperius custodit draco et sine Alcide colchicas delicias non gustasset Iason", Il drago Hesperio custodisce l'ingresso del magico giardino e senza (la volontà di) Ercole, Giasone non potrebbe gustare le delizie della Colcide. In breve un invito a domare con eroica forza di volontà (Ercole) le passioni e la nostra intrinseca natura animale (il drago) per poter accedere alla conoscenza (il giardino). Insomma come si dice a Roma: state sereni!


Se per caso non foste riusciti nell’impresa di decifrare le formule per colpa di quella maledetta cancellata, c’è ancora un modo per riscoprirsi ricchi e tentare l'affare del secolo: una visita ai celebri magazzini Mas (magazzini allo statuto), il tempio del trash Romano dove il tempo sembra essersi fermato alla fine degli anni settanta, e che annovera nella sua lunga storia pubblicitaria testimonial d'eccezione del calibro di Alvaro Vitali e Antonio Zequila.
Cinque vertiginosi piani si stagliano di fronte a voi fra cestoni di mutande a 2 euro e pretenziosi lampadari in stile Versailles, dove tutto è maledettamente autentico e i cartelli dei prezzi sono scritti rigorosamente a mano con amanuense dedizione.
In un trionfo di multietnicità i “dicaaaa” delle sobrie commesse Romane si incontrano con gli ancestrali dialetti del Kashmir Indiano e della Cina rurale, con l'unico inconveniente che nessuno capisce mai un cazzo. Un cartellone affisso all'ingresso delle scale mobili invita a visitare “il sottosuolo”, nome che vi sembrerà curioso riferito ad un piano interrato, ma che riscoprirete quanto mai azzeccato per questa specie di catacomba del trash, che vi condurrà in un percorso senza tempo tra giocattoli, casalinghi, stoffe e divise da lavoro. Teli da mare, zucche di halloween e cappelli da babbo natale sono infatti tutti contemporaneamente accatastati, reparto dopo reparto, incuranti della propria stagionalità.


La colonna sonora, che spazia dalle versioni latino americane degli ultimi successi della Pausini e Ramazzotti alle chicche dance anni novanta, proviene da una sorta di Monolite stile 2001 Odissea nello spazio che si erge dietro le casse prima dell'uscita, da cui con un pizzico di fortuna riuscirete a vedere la commessa di turno estrarre il microfono per estasiarvi in un' ineccepibile descrizione delle ultime offerte dei vari reparti, come solo una volta si usava fare.
Una volta usciti converrete con me che questo posto debba necessariamente essere messo nella lista dei siti protetti dall'Unesco come patrimonio dell’umanità.
A conclusione del tour vi suggerisco di cogliere l'invito della misteriosa iscrizione palindroma riportata sulla soglia della porta magica: SI SEDES NON IS (se ti siedi, non procedi), che letta al contrario è SI NON SEDES IS (se non ti siedi, procedi). Insomma leggetela come vi pare, ma il senso è: muovete il culo che a Piazza Vittorio c'è tutto un mondo da scoprire.

giovedì 2 dicembre 2010

Dice che S.Ignazio c'ha er 3D

Se avevate in mente di sperimentare l'effetto prospettico della terza dimensione, ma l'idea di infilarvi in una sala cinematografica di Parco Leonardo per spararvi "Raperonzolo" in 3D non vi entusiasma, suggerisco la saggia alternativa di una  passeggiata alla scoperta degli effetti ottici e delle bizzarre prospettive della Roma barocca. Vi parlerò quindi di Andrea Pozzo e della chiesa di S.Ignazio di Loyola, nell'omonima piazza a due passi da via del Corso.
Andrea Pozzo, pittore, architetto e scrittore d'arte (nonché faccia da matto nell’autoritratto qui a sinistra), è considerato tra i massimi esponenti del barocco romano ed uno dei primi teorici della prospettiva. Ci troviamo nel 600, periodo immediatamente successivo agli sconvolgimenti ecclesiali della riforma luterana. In questo momento di dura reazione, ricordato come periodo della controriforma, la chiesa sente dunque il bisogno di comunicare con il popolo in maniera più incisiva, colpirlo allo stomaco, scuoterlo emotivamente e fisicamente. Ed e’ in questo contesto che fiorisce il barocco, uno stile che con l'eccesso e la sovrabbondanza investiva lo spettatore fino quasi a stordirlo, affascinandolo e sorprendendolo al tempo stesso ( non dimentichiamoci infatti che l'arte, persino nelle sue manifestazioni di più assoluta genialità, rimaneva comunque al servizio della religione ed evolveva parallelamente alle vicende della chiesa).

Dopo questa pesantissima introduzione è arrivato finalmente il momento di scoprire gli effetti prospettici dei capolavori del Pozzo all’interno della chiesa di S. Ignazio. A questo punto vi pregherei di buttare i vostri ridicoli occhialini di plastica 3D, e di seguire alcune semplici istruzioni.
Entrati nella chiesa dovrete procedere guardando in basso fino ad individuare un disco dorato inciso sul pavimento della navata centrale: avrete trovato il vostro punto di osservazione. Una volta posizionati all'interno, potrete infatti alzare lo sguardo per ammirare "l'apoteosi di Sant'Ignazio", imponente affresco della volta centrale dove Andrea Pozzo, seguendo un'originalissima prospettiva verticale, riesce a "costruire" un vero e proprio tempio virtuale che si innalza sulla base della chiesa reale in cui ci troviamo. Una sorta di piano secondario che sale fino a "sfondare" il cielo con un sorprendente effetto di profondità. Restare ad ammirarlo per qualche minuto a testa in su, complice il naturale senso di vertigine che ci coglie in questi casi (il post sbornia è un bonus), provoca un vero e proprio sbandamento ottico in cui finirete per chiedervi se anche le finestre siano vere o facciano parte dell'illusione.

A questo punto potrete proseguire di qualche passo fino a raggiungere il secondo cerchio marcato sul pavimento e alzare gli occhi verso la cupola…ma la cupola a S.Ignazio non c'è, o meglio c'è, ma è finta, dipinta, un altro effetto del nostro pittore che sopperisce in questo modo alla mancata realizzazione di quella vera in muratura prevista nel progetto originale. Solo allontanandovi dal vostro privilegiato punto di osservazione comincerete a scoprire che le linee cominciano a distorcersi e a curvare in maniera innaturale fino a rivelare in questo modo l'effetto fittizio. Tornando all'interno del cerchio la cupola è nuovamente lì, e il gioco ricomincia.
Se siete rimasti ammirati dalle sue capacità di riuscire a rappresentare uno spazio profondo e ricurvo su una superficie quasi piatta, ebbene Andrea Pozzo non vi fa mancare nulla, ed ecco quindi a voi nella calotta dell'abside quattro colonne perfettamente dritte rappresentate su una superficie concava.
A questo punto, nel caso il gioco delle prospettive vi avesse catturato al punto da farvi dimenticare di trovarvi ancora all'interno di un luogo sacro, vi invito ad uscire prima di esclamare il consueto "mortacci sua" d'ammirazione.



In questo modo tornerete all'omonima piazza, che ancora di più vi sembrerà schiacciata dalla presenza dell'imponente edificio. I palazzi che la racchiudono, commissionati da papa Gregorio XIII a Filippo Raguzzini per comporre la giusta scenografia da anteporre alla chiesa, seguono infatti un raffinato gioco di curve che percorrono morbidamente tutto il perimetro (il colore originario era un grigio-azzurro cielo che doveva avere la funzione di ampliare e alleggerire lo spazio, oppresso dall'incombente presenza della chiesa). Lo storico dell'arte Francesco Milizia li criticò duramente definendoli "ridicole case a foggia di canterani", ovvero mobiletti d'epoca Francesi detti anche bureaux. Da qui il popolo dei rioni li trasformò in burò e quindi burrò, che è anche il nome della via che corre dietro i palazzetti (immagino che se non si fosse partiti dalla pronuncia corretta oggi ci ritroveremmo una via dei bureaucchese).
In ogni caso sono certo che come me non condividerete lo sdegno di Milizia e apprezzerete l’armonia e la leggerezza di questi inconsueti edifici.
A questo punto potrete proseguire la passeggiata verso il pantheon dove vi obbligo a fermarvi per la migliore granita di caffè con panna (non fa freddo, non è vero) al bar tazza d'oro in via degli orfani 84.

La chiesa di S.Ignazio di Loyola è visitabile dalle 7:30 alle 12:30 e dalle 15:00 alle 19:00.
E in quanto a Andrea Pozzo vi garantisco che lo ritroveremo presto.

lunedì 29 novembre 2010

Dice che a Via Veneto c'è una cripta fatta de teschi

Ogni volta che qualche cugino di terzo grado della sorella di un amico di qualche attore Americano mette piede a Roma e viene fotografato in un qualsiasi ristorante del centro, puntualmente le cronache mondane gridano ai rinnovati fasti della dolce vita. E' come una perdita di cui noi Romani non riusciamo a farci una ragione, un cadavere che tentiamo di resuscitare goffamente da circa mezzo secolo senza alcun risultato. La dolce vita è finita, defunta, sparita e lo tocchiamo con mano in quel meraviglioso decadimento di Via Veneto tra pretenziosi bar fuori moda, ambigui locali  popolati di attempate puttane di alto bordo e papponi Sovietici, e vecchie foto di Mastroianni ostentate alle pareti di ristoranti, dove turisti in bermuda si illudono di vivere in un film di Fellini pagando a caro prezzo il peggio della cucina Italiana. Devo comunque ammettere che personalmente sono molto affascinato da tutto questo. Percorrete dunque questa celebre strada partendo da Villa Borghese, lasciatevi impadronire da quella sottile malinconia di un "tempo andato che non torna" e arrivati all'altezza di Piazza Barberini sarete pronti per la visita ad uno dei più macabri monumenti della nostra città: la cripta dei Cappuccini sotto la chiesa di Nostra Signora della Concezione.  

Il senso di questo luogo si riassume nella frase che troneggia all'interno: "noi eravamo quello che voi siete e quello che siamo voi sarete". Una frase che ci riporta alla precarietà della nostra vita terrena, al passare del tempo e alla serena accettazione di un ciclo che finisce. Verrebbe quasi da pensare che anche i cappuccini di Via Veneto  si fossero strarotti le palle della tanto compianta dolce vita. Una volta scesi all'interno vi accorgerete che lo sfarzo e l'eccesso a Via Veneto esistono ancora, solo un po più in basso di quanto potevate immaginare e con un estetica decisamente più kitsch. Le ossa di circa 3700 frati cappuccini, traslate dal vicino cimitero anticamente situato nei pressi del Quirinale, sono state infatti utilizzate per comporre la decorazione di cinque piccole cappelle. Un trionfo del rococò in cui rosoni, stelle, lesene, lampadari e persino un orologio sono minuziosamente assemblati con tibie, femori, bacini e teschi. Un piccolo corridoio vi condurrà attraverso le cinque cappelle che prendono il nome dalle ossa utilizzate per il decoro, dove frati mummificati ancora vestiti del loro saio vi daranno il benvenuto nei loro "salotti" sfarzosamente decorati.
La chiesa venne edificata per volontà di Papa Urbano VIII in onore di suo fratello Antonio Barberini appartenente all'ordine dei Cappuccini. I tre piccoli scheletri presenti nella cripta sono proprio i pronipoti di Urbano VIII, ma la vera protagonista è la principessa Barberini, il cui scheletro incombe dall'alto sorreggendo nella mano destra una falce, simbolo della morte, e nella sinistra una bilancia, a rappresentare l'eterno giudizio di Dio nella valutazione delle opere buone e cattive. 
La diva Felliniana e la principessa Barberini, la vacuità della dolce vita e il destino ineluttabile della morte.



Nella cappella dei teschi campeggia una clessidra alata con delle scapole: il tempo passa, anzi vola. Soprattutto per quelle dive che dal tempo sono terrorizzate. E se tornando indietro guarderete ancora quelle vecchie foto di Sofia Loren, Mastroianni e Anita Ekberg dietro i banconi dei bar, comprenderete il paradosso di questa celebre strada dove la vita e la morte sono due facce della stessa medaglia. Ma soprattutto comprenderete che è ora di toccarsi le palle e andarsi a fare un aperitivo.  
Se il tempo e la stagione lo consentono consiglio il cinecaffè Casina delle Rose all'interno di Villa Borghese.

La chiesa di Nostra Signora della Concezione è in Via Veneto 27 e la cripta è visitabile dalle 9:00 alle 12:00 e dalle 15:00 alle 18:00 (giovedì chiuso).

Dice che S.Stefano è un sacco pulp


La prima vera chicca di cui vi parlo oggi è la basilica di santo Stefano Rotondo. In pochi la conoscono nonostante sia una delle più particolari e affascinanti basiliche della città.
Per quale ragione dovremmo abbandonare i nostri amici gladiatori giù al Colosseo e trascinarci fino alle vette del Celio? Di motivi ce ne sono diversi. Il primo è che si tratta di uno dei pochissimi esempi di basilica cristiana a pianta circolare. Ed è sicuramente tra le più antiche. La base originaria, che risale al V secolo d.c., quando la basilica fu consacrata da Papa Simplicio in onore del protomartire Stefano, era strutturata in tre anelli concentrici separati da relativi colonnati.


Questa prima informazione ci offre già un ottimo spunto per farci belli e colpire il nostro interlocutore con temi legati al mistero e ai templari ( si sa che i templari vanno un sacco di moda e riusciremmo a trovarne tracce e suggestioni anche nella ricetta del mojito, di moda a sua volta quasi quanto i templari...ma non divaghiamo) dandoci modo di iniziare a delirare sul tema della cosiddetta “triplice cinta”. La triplice cinta è un simbolo molto antico (di cui torneremo a parlare) che ritroviamo inciso e rappresentato un pò ovunque nell'antichità,  e che consiste in tre quadrati concentrici collegati da linee centrali a mò di croce. Lo schema del filetto per intenderci.
Questa struttura ci riporta ad un affascinante simbolismo (i 3 livelli della conoscenza, i tre gradi di iniziazione della tradizione esoterica, i “tre mondi” della tradizione hindu) legato quindi alla numerologia e conseguentemente rapportato alla struttura architettonica di antiche e leggendarie città: dalle antichissime città Celtiche, dove abbiamo una triplice cerchia druidica di mura, ad Atlantide, e ancora alla stessa Gerusalemme Celeste mostrata da un improvvisato Dio architetto a Mosè in quel del Sinai. Se poi ci mettiamo in mezzo anche il tempio di Salomone ecco quindi ricollegata la concezione della pianta originaria della basilica a queste misteriose simbologie architettoniche.
Le proporzioni della struttura ricalcano inoltre con esattezza quelle della più famosa basilica dell’Anastasis a Gerusalemme (il Santo Sepolcro).


Putroppo, in seguito ai numerosissimi rifacimenti che si sono succeduti nel corso dei secoli, l’anello più esterno è stato eliminato e  il relativo colonnato che separava i due anelli risulta murato all’interno di quella che oggi ci appare come la parete perimetrale.
Mi dilungo ancora sulla pallosissima questione della pianta originaria solo per introdurre uno degli ambienti più interessanti di questa basilica. La pianta circolare era infatti originariamente intersecata da quattro navate a croce greca, di cui rimane visibile un' unica abside che, sporgendo esternamente alla struttura circolare, va a formare la cappella dove sono custoditi i resti dei martiri Primo e Feliciano.
Consiglio quindi di iniziare la visita da questa cappella, all'interno della quale un suggestivo mosaico in stile Bizantino vi offrirà una singolare e alquanto rara rappresentazione di Cristo raffigurato in un medaglione che sormonta una croce, dove una volta tanto (ed egli sembra convenire con noi nella sua espressione serena e soddisfatta) eviterete di ritrovarcelo inchiodato. Una bellissima immagine che secondo i dettami di un' antica iconografia decisamente più soft, di cui si trovano pochissimi esempi, evitava di turbare e impressionare il fedele con rappresentazioni crude e sanguinolente.

Quando finalmente rasserenati da questa immagine rassicurante, andrete ad ammirare  il ciclo di affreschi che decorano il perimetro della chiesa, ecco che invece rimpiangerete i sette capitoli di “the saw” e i ventisette Venerdì 13 che vi siete sparati durante l'ultima maratona di Halloween, nel momento in cui vi troverete di fronte ad una sequenza impressionante di supplizi, sventramenti e amputazioni che non vi risparmieranno certo i particolari sulle torture subite dai vari martiri nel corso delle persecuzioni.


Non vi sembra quindi un bel contrasto? In realtà questo ciclo di affreschi venne realizzato dal Pomarancio in uno degli ultimi rifacimenti della basilica durante il periodo della controriforma, quando spaventare i fedeli era diventato consuetudine e necessità nel momento in cui nuove ideologie, come il protestantesimo, cominciavano a farsi strada nella chiesa. La successione temporale degli affreschi rispetto al mosaico spiega quindi la connivenza di questi due estremi rappresentativi, che nel loro forte contrasto rendono estremamente curiosa e interessante la visita della basilica.
In ogni caso vi invito ad approfondire da soli la storia di questo luogo sorto sui resti di un antico mitreo Romano e le varie ipotesi sul suo legame con la basilica del Santo Sepolcro. Qui mi basta avervi incuriosito su quello che potrete spacciare come la chiesa più pulp della città, dove ignare coppiette vanno a sposarsi e a battezzare innocenti fanciulli circondate da questo orrore sanguinolento.

La basilica si trova al Celio in via S. Stefano Rotondo 7 e si può visitare dal martedì al sabato la mattina fino alle 12:30 e il pomeriggio dalle 15:00 alle 17:00 (18:00 l’estate).

Dopodichè vi invito allo svacco più assoluto in quel di Villa Celimontana giusto di fronte.