mercoledì 21 dicembre 2011

Dice che al Mandrione

Esistono paesaggi urbani che non potremmo trovare in nessun altro posto del mondo, vere e proprie scenografie metropolitane scolpite da una storia millenaria che non conosce interruzioni, in cui la "Roma eterna" non si coglie più nell'immobile monumentalità di un passato ancora in piedi, ma al contrario nella costante mutazione di una città che ha continuato a trasformare se stessa e il suo patrimonio in un alternarsi di splendore e miserie: la borgata del Mandrione è il risultato di tutto questo. Antichi acquedotti Romani e Rinascimentali, linee ferroviarie, tracce di campagna e schegge di borgata si incrociano e si accavallano in un'orgia architettonica senza tempo, dove la magnificenza delle antiche opere idrauliche si fonde con l'ingegno della povertà delle recenti baraccopoli, regalando nuova vita e nuova funzionalità alle vestigia del nostro passato. Questo viaggio nella stratificazione storica e antropologica si snoda lungo il percorso dell’omonima via del Mandrione e l’ultimo tratto della via Casilina vecchia, dove il confine tra la città e la campagna è un illusione che si ripete ad ogni svolta.

La zona venne occupata dagli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1944, che proprio sotto gli archi dell'acquedotto Felice trovarono rifugio e ispirazione architettonica. Con l'aiuto di travi e lamiere gli archi dell'acquedotto vennero convertiti in veri e propri spazi abitativi, dando vita ad una piccola comunità con pacchetto completo di orticelli, bande di monelli scalzi e puttane di quartiere al seguito. E mentre case-grotta, case-sassi e case-barche attirano l’attenzione e la curiosità dei turisti di tutto il mondo tra l'Olanda e la Lucania, solo a Roma avrete modo di scoprire ciò che resta di quelle che potremmo battezzare case-baracche-acquedotto: più baracche che case, ma con il merito di un'ingegnosità che va ben oltre il risultato estetico. Questa convivenza tra sfollati, zingari e puttane negli anni 50 fu ovviamente una folgorazione per Pier Paolo Pasolini, che in onore di tanta sporca decadenza spese fiumi di pellicola e di inchiostro per celebrare la vita del Mandrione e dei suoi giovanissimi abitanti: " (...) la pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto." 

La parte più raccolta è l’ultimo tratto verso la via Casilina, dove tutto sembra convergere verso un ideale centro di equilibrio: le strade e i binari si rincorrono in maniera sempre più serrata sotto gli archi dell'acquedotto Felice, e tra il via vai di ciclisti e l'onnipresente abbaiare di sottofondo, il Mandrione si trasforma in borghetto di artigiani, carrozzieri e falegnami. Un piccolo orto di campagna atterrato nella metropoli da chissà dove diventa parchetto per far pisciare i cani, centro di aggregazione sociale e luogo di bivacco gastronomico con tanto di panche, griglia per la braciolata e terrazza con vista sulla ferrovia, un spazio metafisico dove il lento strisciare dei treni scandisce un tempo che quassù sembra aver deciso di scorrere con un ritmo proprio, parallelo e rallentato.

Pochi metri più avanti l’illusione continua nel regno del "marmocemento", dove nonostante abbiate mancato l'appuntamento con lo spacciatore del parchetto, inspiegabilmente appariranno di fronte a voi la bocca della verità e una miniatura del Colosseo. Geloso del proprio status di rappresentante della città eterna, il Colosseo è forse li a ricordarci che anche lui, come gli acquedotti del Mandrione, ha il suo sporco passato di pascolo per vacche e cava di marmi papalina che lo ha tenuto in vita, ed è ingiusto pensare che sia sempre rimasto li solo come un bel pezzo da museo. In realtà questa bizzarra visione si spiega con la presenza dell'adiacente fabbrica "Roma Antica", una fucina di evocativi manufatti in marmocemento tra il kitsch e il pretenzioso, in cui statue classiche e fontane gareggiano per eccesso di pomposità alla ricerca di una collocazione in qualche "sobrio" giardino Romano.
Con i binari che scompaiono all’orizzonte e gli acquedotti che sembrano non avere fine viene da chiedersi dove sia finita la città, che quasi sembra farsi da parte per lasciare spazio a questo gioco di equilibri senza tempo. Il continuo incrociarsi, apparire, sparire crea una vertigine che lascia un vuoto allo stomaco, e quando il vuoto si trasforma in languore e il languore in fame nera è segno che è arrivato il momento di fare un salto in zona "Certosa"” per approdare in una delle ultime trattorie romanesche: l'Osteria da Betto e Mary.

Li dove il bagno si chiama "cesso" e il vino della casa stordisce con la violenza di un cazzotto in faccia, è possibile ritrovare i sapori perduti dell'autentica cucina Romana. Tra rutti, stornelli e pianti di infanti disperati a squarciare l'aria e le membrane del timpano, un piatto di pajata e un fiasco di vino rosso vi riconcilieranno con le atmosfere delle vere borgate Romane. Per un esperienza veramente hardcore non dovete assolutamente perdere i pranzi sociali a 10 euro ogni ultima domenica del mese, dove in compagnia degli abitanti della zona potrete unire l'utile al dilettevole contribuendo alle piccole battaglie sociali del quartiere e soprattutto alla difesa del vostro colesterolo. E se al secondo piatto di trippa sentirete crescere in voi un senso di colpa (e probabilmente non solo quello), consolatevi pensando che la vita è sempre meglio godersela: in fondo da queste parti di eterno rimangono solo gli acquedotti!

"Betto e Mary" si trova in via dei Savorgnan 99