venerdì 28 dicembre 2012

Dice che Caravaggio nun pagava l'affitto


Raccontare l'intera vita di Michelangelo Merisi detto Caravaggio rischierebbe di impegnarci in un' avvincente, ma infinita epopea di trasferimenti e fughe, costellata di risse, omicidi e ingiurie: "ho in culo te e quanti par tui si trovano" disse il nostro Michelangelo a un caporale, trovando la prigione al posto di un applauso. Una vita avventurosa da artista maledetto scandita dalla produzione di grandiose opere d'arte riconosciute a livello mondiale. In questo caso ho deciso di selezionare un singolo episodio e una sola opera, invitandovi a cogliere un momento della vita dell'artista con una breve passeggiata tra i rioni di Campo Marzio e S.Eustachio. Sullo sfondo c'è la Roma gaudente e pericolosa dei primi del Seicento, dove il sacro va di pari passo col profano e le madonne si confondono con le puttane. Tra soggiorni in carcere e nobili rifugi sotto la protezione di potenti famiglie e cardinali, è stata infine accertata la presenza di un temporaneo domicilio privato del Merisi. Ci troviamo in vicolo San Biagio (oggi vicolo del Divino Amore) a Campo Marzio ed è proprio qui che prese alloggio il Caravaggio alla fine del suo periodo romano, affittando un piccolo studio in compagnia del suo garzone. In calce al regolare contratto di affitto stipulato con tale Prudenzia Bruni, si evince una curiosa clausola che attesta la richiesta dell'artista di poter "scoprire metà della sala" sfondando il solaio. Primo caso di inquilino che procura danni come da contratto! E' affascinante pensare che proprio lui, considerato il maestro della luce, avesse richiesto uno sfondamento del soffitto per affinare i suoi giochi di tecnica dell'illuminazione, anche se in realtà sembra che la modifica strutturale fosse necessaria per consentire la realizzazione di una tela di grandi dimensioni, commissionata proprio in quel periodo. La proprietaria, evidentemente poco informata sul passato turbolento del suo affittuario, che già annoverava un curriculum di tutto rispetto fatto di risse, furti e sfregi vari (non mancò il piatto di carciofi in faccia all'oste scorbutico e rompicoglioni), accettò in cambio di una dichiarazione che prometteva il ripristino finale dell'alloggio a spese dell'inquilino. E vatte a fidà der Merisi!


Fu dunque proprio in quel vicolo che per un certo periodo il Caravaggio rientrava dopo le sue scorribande notturne tra osterie e bordelli. Nel frattempo avvenne un incidente, le cui conseguenze si risolsero in una sua prima fuga da Roma. Causa dell'"imprevisto" fu una prostituta di nome Lena, amante del turbolento Michelangelo, per la quale avvenne uno scontro in strada tra il pittore e tale notaio Mariano Pasqualoni: "spasseggiando in Navona (..)mi sono sentito dare una botta in testa dalla banda di dietro, che io sono subbito cascato in terra et sono restato ferito in testa, che credo sia stato un colpo di spada (...). Io non ho visto chi sia stato quello che mi ha ferito, ma io non ho da far con altri che con detto Michelangelo, perchè a queste sere passate havessimo parole sul Corso lui et io per causa d'una donna chiamata Lena (...)". Quasi ci sembra di vedere il Caravaggio che inveisce in via del Corso per amore di una prostituta. Il pittore fuggì quindi a Genova lasciando Prudenzia con affitto e soffitto scoperti. La povera donna decise quindi di aggiungere un'ulteriore querela alla collezione del pittore, e per rifarsi dei mesi di affitto non pagato e del danno al solaio riuscì infine ad ottenere il sequestro dei beni del Merisi. Dai documenti ufficiali si denota a quanto questi ammontassero: una magra consolazione per la donna, e un ulteriore motivo di stima per i fan del personaggio. Si rinviene infatti tra l'altro " un forzieretto (...) con dentro un par de calzoni et un giuppone stracciati, una quitarra, una violina, un pugnale (...)". Al ritorno da Genova Michelangelo Merisi si ritrova quindi senza casa e senza beni, e a questo punto non trova di meglio da fare che andare a prendere a sassate la finestra della povera Prudenzia: in poche parole cornuta e mazziata!


E' proprio durante gli anni di vicolo san Biagio che il genio realizza la tela della "Madonna dei pellegrini". A questo punto è doveroso procedere lungo via della Scrofa per raggiungere la chiesa di Sant'Agostino, dove il dipinto fa bella mostra di sè nella Cappella Cavalletti. L'opera racchiude in sè le caratteristiche che hanno reso celebre il pittore: il drammatico utilizzo della luce, e il consueto realismo di strada applicato all'opera religiosa, fatto di stracci, piedi sporchi e fattezze popolane (e come non pensare a Pasolini e alla sua Medea?). Come se non bastasse a fare da modella per la vergine Maria viene scelta una prostituta, la celebre Lena del "contenzioso" di piazza Navona. Potreste immaginare lo scandalo e lo scalpore? In realtà la cosa che fece più scandalo e scalpore furono i piedi gonfi e zozzi dei pellegrini, offerti in faccia allo spettatore con il solito sfacciato realismo. Ulteriore motivo di lamentela fu l'aspetto decisamente poco signorile della dimora mariana, dove le pareti scrostate della facciata accanto allo stipite avrebbero fatto pensare, oltre che ad un amministratore di condominio poco efficiente, ad un contesto decisamente popolare. Ma non vi sembra forse familiare quello stipite? Guardate la foto del portone in vicolo San Biagio. Effettivamente i tempi coincidono (l'opera fu realizzata proprio nell'anno della sua permanenza in casa di Prudenzia) e come ulteriore conferma potremmo citare l'abitudine dell'artista di inserire un elemento autobiografico all'interno delle proprie opere. Esemplificativo in questo senso fu il suo riprodurre ossessivamente le proprie fattezze nei volti delle teste mozzate, come gesto di disperata scaramanzia conseguente alla promulgazione della sua condanna alla decapitazione (ma questo lo vedremo in seguito). Magari quella Lena desiderata dal pittore proprio in quel periodo, rappresentata sulla soglia della propria abitazione aveva per lui un significato personale che andava a sovrapporsi alla lettura religiosa dell'episodio.


Tanto per rimanere in tema la stessa chiesa di Sant'Agostino era abitualmente frequentata dalle prostitute della zona, come ci riporta tra l'altro in una sua lettera a Lorenzo de' Medici la cortigiana Beatrice da Ferrara: "così, mezzo contrita, mi confessai dal predicatore di Sant'Agostino; dico nostro, perchè quante puttane siamo in Roma, tutte veniamo alla sua predica, ond'esso, vedendosi sì notabile audentia, ad altro non attende se non a volerne convertir tutte. Oh, dura impresa!". Ma la madonna del Caravaggio non è l'unica madonna della chiesa a mescolarsi col profano: a due passi dal dipinto del Merisi possiamo infatti ammirare la statua della Madonna del Parto, che secondo la tradizione popolare del tempo si riteneva fosse l'adattamento di una statua romana raffigurante Agrippina madre di Nerone, e che il Belli non esita a definire puttana in un sonetto per via dei suoi ornamenti preziosi che la rendono "accusì ricca, accusì ciana"  Tornando a Caravaggio sappiamo già come come finisce la storia. Durante una partita al gioco della pallacorda, sempre nei pressi di vicolo san Biagio, scoppia una rissa dove ci scappa il morto. Questa volta è stato chiaramente passato il limite e viene emessa una condanna a morte. Da quel momento in poi la vita del pittore si trasforma in una fuga rocambolesca attraverso Napoli e poi Malta, conclusasi malamente con la morte del Merisi sulla rive di Porto Ercole, proprio quando infine sembrava essergli stato concesso il perdono e il conseguente ritorno a Roma. Di lui ci restano le sue opere e la sua storia avventurosa, che magicamente si ripresenta a noi semplicemente sbirciando in un vicolo buio della città. E in un istante rivive un momento della vita di un grande artista e lo squarcio di un'epoca in cui Roma seppe esprimere al meglio la sua natura: quella di santa e di puttana, proprio come in un'opera del grande Caravaggio.


Grazie a Silvia del blog la locandiera per il prezioso spunto!

P.S.
Vicolo san Biagio si chiama oggi vicolo del Divino Amore

lunedì 10 dicembre 2012

Dice che i "Baptai" festeggiavano alla grande


Nell'elegante quiete borghese del quartiere Pinciano, qualora riteniate che gli unici segreti custoditi dai garage siano i lussuosi macchinoni dei residenti, sarete sorpresi di scoprire che proprio lungo l'anonima rampa di accesso ad un garage condominiale si nasconde uno dei più affascinanti ed enigmatici sotterranei di Roma: il misterioso Ipogeo di via Livenza, situato appunto tra via Livenza e via Po. Il motivo di tale generica denominazione è dato dalla mancata identificazione della funzionalità di questo sito. Ipogeo  (letteralmente dal Greco upo/sotto geo/terra) sta in effetti ad indicare un imprecisato luogo sotterraneo, motivo per il quale la prossima volta che dovrete scendere in cantina a recuperare una bottiglia di vino potreste di diritto cimentarvi in un altisonante "scendo n'attimo a prende n'artra boccia giù all'ipogeo". Il che susciterà certamente l'ammirazione (e qualche vaffa) da parte dei vostri commensali. Ma da dove nascono questi dubbi interpretativi sulla natura del luogo? Innanzitutto possiamo notare che l'ipogeo venne originariamente concepito come sotterraneo, il che ci viene confermato dal fatto che per accedere al suo interno ci troveremo a discendere i gradini originali della struttura. Purtroppo gran parte dell' ambiente è stato sacrificato dai lavori di costruzione dei palazzi sovrastanti, quando nell'impeto distruttivo dei palazzinari di inizio secolo scorso, solo la sezione più settentrionale venne risparmiata, forse per caso o forse in virtù dell'eccezionalità dell'impianto decorativo. Di quello che doveva essere un ambiente ellittico rimane dunque solo questa piccola porzione, consistente in una piscina, una splendida nicchia riccamente affrescata e i residui di una coloratissima decorazione mosaicale.


Prima di addentrarci nelle possibili interpretazioni, sarà bene descrivere i soggetti decorativi e la struttura della vasca-piscina, per raccogliere i primi indizi ed iniziare quindi a formulare le diverse ipotesi. La piscina è un vascone profondo due metri e mezzo foderato in cocciopesto, nel quale si accede attraverso tre gradoni piuttosto alti (il primo è stato riciclato da una lapide con un intuizione death-design piuttosto notevole). Sia l'altezza del fondo che quella del gradino iniziale fanno sorgere i primi dubbi in merito ad un possibile utilizzo a scopo ricreativo. Basti immaginare a come reagiremmo se andassimo in una Spa e ci ritrovassimo una vasca idromassaggio alta tre metri (lapide a parte), senza considerare inoltre che la presunta "bassezza" dei nostri antenati avrebbe contribuito a rendere la cosa ancora più seccante. L'acqua sgorgava direttamente da una sorgente naturale preesistente per mezzo di un tubo di terracotta, mentre per lo svuotamento e il ricambio notiamo sulla sinistra un ingegnoso sistema di apertura e chiusura a scorrimento tipo saracinesca.


Sovrasta la vasca una splendida nicchia riccamente decorata sia all'interno che ai suoi lati. Sul lato sinistro troviamo la figura di Diana/Artemide nell'atto di estrarre una freccia dalla faretra per cacciare un cervo, mentre sul lato opposto una ninfa animalista accarezza un piccolo bambi. Il tutto in un ambiente agreste rappresentato con notevole padronanza della prospettiva e dei chiaro-scuri. A prima vista potremmo quindi dedurre di trovarci al cospetto di personaggi e simbologie pagane. In realtà, se andiamo a curiosare sui resti della decorazione a mosaico nella parete laterale, scopriremo i dettagli superstiti di una rappresentazione a soggetto cristiano, dove si percepisce la figura di un uomo inginocchiato davanti ad una fonte, affiancato da un'altra figura in piedi. Secondo l'iconografia cristiana sembrerebbe rappresentare l'episodio di Pietro che fa scaturire l'acqua da una fonte per dissetare (e simbolicamente battezzare) un centurione. Quindi un episodio decisamente legato alla "nuova" religione. Tutto intorno amorini ed eroti dediti a scene di vita acquatica e fancazzismo marino (chi pesca, chi gioca coi cigni, chi nuota).

Per fare un pò più di chiarezza sarà bene definire il contesto storico in cui ci troviamo, accertato con precisione dalla presenza di un bollo (il marchio di fabbrica) con il monogramma di Costantino impresso su un mattone che ci riporta immediatamente in epoca Costantiniana, e dunque nella seconda metà del IV secolo D.C.. Costantino fu il primo imperatore ad ammettere e conseguentemente a istituzionalizzare il cristianesimo dopo secoli di persecuzioni, seguito da Giuliano l'Apostata che tentò un breve revival del paganesimo, fino alla definitiva consacrazione del cristianesimo come unica religione di stato da parte di Teodosio. Tutto questo ci fa comprendere quindi come in un'opera di quel periodo potesse essere normale trovare confusamente affiancati simboli del cristianesimo e retaggi del paganesimo. E chissà che addirittura non si fosse utilizzata la figura di Diana come metafora del paganesimo che scaccia i cervi (cristiani) in opposizione alla ninfa che li accoglie e accarezza (interpretazione decisamente forzata per i miei gusti). L'immagine di Pietro alla fonte e tutta una serie di elementi che rimandano all'acqua potrebbe quindi far supporre la funzionalità del luogo a battistero cristiano. Ma anche in questo caso un battesimo in due metri e mezzo di vasca risulterebbe un operazione piuttosto complessa, e quindi poco convincente.


Infinitamente più affascinate è l'ipotesi che rimanda alla setta misterica di origine Tracia dei cosiddetti Baptai, adoratori di una certa dea Cotys, in tutto e per tutto assimilabile ad Artemide. Questo spiegherebbe allo stesso tempo la presenza di Diana e quella di una vasca più profonda. In effetti quello che oggi potrebbe apparirci come un Rave finito male, consisteva allora in un preciso schema rituale, dove in un crescendo di alcol e pratiche orgiastiche, la presenza dell'acqua e quindi di una vasca risultava fondamentale per accompagnare i partecipanti all'apice della festa con un tuffo nell'acqua gelata. Il conseguente shock termico subito in condizioni da "ritiro patente" era coraggiosamente definito dagli adepti come "shock dell'estasi". E allora come giustificheremmo la presenza del Pietro battista? Come per il culto Mitraico, dove ritroviamo numerose analogie con la religione cristiana, non sarebbe così strano poter ammettere una coesistenza di simboli (quelli che so' strani forte sono al limite i Baptai). Numerose altre ipotesi vanno dal troppo generico (luogo segreto destinato a riti magici) al decisamente più logico (luogo di riunione di una setta sincretista, corrente religiosa in cui convergono simbologie e pratiche provenienti da più religioni diverse), ma se la soluzione fosse infine quella più semplice? Nei pressi della frequentatissima via Salaria, la consolare che tagliava l'Italia dal Tirreno all'Adriatico per permettere il trasporto del sale dal guado del Tevere alla Sabina (Salaria dunque da sale, per chi ancora stesse cercando di capire chi fosse il console "Salario"), sgorgava al tempo una sorgente d'acqua. Allo sbocco di questa sorgente si decise dunque di costruire un ninfeo, una sorta di autogrill alle porte della città per dare modo ai viaggiatori appena arrivati di rinfrescarsi e poter fare una sosta rigenerante. La decorazione "mista" risulta dunque una scelta di ruffiano "marketing" della tolleranza, che nel flusso cosmopolita dei viaggiatori, tradizionalisti pagani e neo-riconosciuti cristiani, aveva l'obiettivo di non scontentare nessuno.
Io dico che quest'ultima ipotesi non fa una piega, ma se qualcuno dovesse aprire domani su facebook l'evento "festa baptai"..fate conto che ho già cliccato su "parteciperò".


Per accedere al sito il consiglio è di rivolgersi ad associazioni specializzate come "Roma Sotterranea" o "i sotterranei di Roma"., che organizzano visite periodiche all'ipogeo.

giovedì 29 novembre 2012

Dice che due anni so 'na cifra!

Ebbene sì. Due anni per un campione di incostanza sono decisamente un record. Ed è soprendente quante cose siano successe intorno a questo blog nell'ultimo anno. La più esaltante è stata certamente la pubblicazione del libro "Roma Fuoripista", con il quale vi ho martellato adeguatamente gli attributi nei mesi trascorsi (e futuri). E' stata una piccola grande soddisfazione e una divertentissima faticaccia per promuoverlo. Dopo un entusiasmante presentazione (dove ho avuto il piacere di conoscere alcuni di voi), pittoreschi mercatini sotto la pioggia, pellegrinaggi per librerie indipendenti e oKKupazioni di stand in fiera grazie alla disponibilità di amici editori (in tutto questo un editore lo avrei anch'io, ma ne ho perso le tracce), ci siamo infine lanciati sull'organizzazione delle passeggiate "Fuoripista": divertenti tour alternativi alla scoperta dei segreti del centro storico, rigorosamente coronati dall'alcol di un aperitivo e quattro chiacchiere. Qualcuno di voi si è fatto vivo passando per Roma e, tra un rapidissimo giro turistico in modalità Giapponese (Micaela), e una mangiata in trattoria (vero zio Nick?), ha piacevolmente contribuito a rendere questo spazio un pò più vero. Che altro? Mi sono lanciato in un corso di fotografia per rendere più dignitosa la parte "visiva" del blog e mi sono iscritto a un paio di associazioni speleo-archeologiche per avere accesso ai numerosissimi e misteriosi sotterranei romani, così da poterli raccontare anche a voi. Insomma facendo due conti è stato un percorso tutto in salita (o in profondità considerate le mie incursioni sotterranee) e anche questa volta rinnovo la promessa di continuare con lo stesso entusiasmo, con la speranza di essere ancora il vostro punto di riferimento per le migliori dritte ogni volta che sarete di passaggio nella città eterna!


L'anno scorso ho celebrato il primo anno con uno scatto del mio amico e coautore di "Roma Fuoripista" Bruno Lomasto (non questa sopra, questa è mia ;) ); quest'anno voglio farlo regalandovi la bellissima prefazione al libro scritta da un altro amico: Giampiero Venturi.

Roma è una pozzanghera: un pezzetto di fango dove infili i piedi e dici “ammazza...” e uno specchio
che in quel fango ci disegna un campanile. Roma è tutto quello che hai visto e tutto quello ti manca. La folla e il vuoto, l’anna’ pe uno e il rimanere. Roma è un gomitolo di gente senza senso e un bandolo di pensiero senza fine. Roma è vera; Roma è un gioco.
È due passi: il sacro col profano. Uno avanti e l’altro dietro; alternati e qualche volta insieme.
Pensare di guardare in faccia Roma e di’ “sì t’ho capita... adesso te descrivo...” è una mossa da
fregnoni, come er cantastorie stonato venuto pe’ sona’ e finito sonato.
Parafrasando il Marchese del Grillo nel “quando si scherza bisogna esse’ seri...”potremmo dire che “per essere seri, bisogna sapecce ride”.
Roma è a parte. Roma è il disincanto su tutto perché hai visto tutto; è un palcoscenico ardito e retrivo insieme e chi ci sale sopra deve sape’ disincanta’...
Roma va presa di taglio, per traverso, come un vicolo stretto e cencioso che il turista si dimentica di
fare. Roma va presa e indicata a pezzi, uno per volta, con la sfrontatezza che le si addice e l’umiltà di
chi ci si inchina.
Per parlare di Roma devi partire dal piccolo, perché è così grande che ce diventi matto... Per fotografarla devi pensare al particolare, perché altrimenti sei un’altra cartolina. Solo nel piccolo puoi fare una cosa grande: è il destino, l’onore e l’onere di chi con le cose grandi ci si deve confrontare.
È così come chi c’è nato e non ne conosce le strade. Come chi non l’ha mai vista, ma non passa giorno che nun l’ha sentita...
Una finestra su Roma deve essere particolare, laterale, per forza discreta. Per natura, per carattere,
per forza di cose: come il romano vero, per antonomasia allegro e compagnone, ma in realtà per indole, solitario e permaloso. Roma è una girata di spalle davanti al più grande degli eventi, un ma che ce frega che spiega tutto senza dire niente. Roma è il sole sopra che non si guarda mai dritto pe’ dritto.
Roma per natura chiama soggezione. E la soggezione la vinci con l’umore, con l’ironia, con l’inventiva.
Per questo Roma può essere solo un giro fuoripista. Una battuta al margine. Una camminata fuori dal convenzionale. Uno sguardo piccolo e scanzonato su tutto quello che è senza rivali.
Ed è così che ce la presentano Andrea e Bruno.


Infine che dire...siamo a un mese da Natale e se volete regalare un pezzo di questa mia amata città così come ve la racconto, "Roma Fuoripista" sarà sicuramente un regalo gradito che potrete ordinare on line sul sito www.romafuoripista.com (o trovarlo nelle librerie indicate sempre sulla stessa pagina alla sezione "dove trovarlo"). Una selezione dei migliori itinerari raccontati nel consueto stile "dice che a Roma" e accompagnati dalle bellissime foto di Bruno Lomasto.
Un grazie speciale a Zio Scriba, Nato Stanco, la Pestifera Micaela, lo zio Piero, Jajo e Claudia per essersi palesati oltre lo schermo.
Ai ragazzi della Tunuè (editori dell'immaginario) per la disponibilità.
Agli "stolti" Andrea e Simona per l'appoggio e la collaborazione.
A Bruno per la sua amicizia e il suo prezioso contributo al nostro lavoro.
A tutti quelli che hanno ordinato, letto e apprezzato il libro.
E a tutti voi che passate di qui, lasciate una traccia, commentate, correggete e siete il mio stimolo a continuare in questo modo ancora per molto, moltissimo tempo!
A prestissimo (daje che la prossima volta vi riporto sotto terra ;) ),

Andrea

giovedì 22 novembre 2012

Dice che 'sta fontana è vietata ai minori


Parlare della "Roma nascosta" non vuol dire necessariamente fare riferimento a luoghi normalmente poco accessibili o comunque distanti dai nostri itinerari quotidiani, e con un pizzico di conoscenza e uno sguardo più attento, persino una frequentatissima rotatoria in pieno centro potrebbe infine rivelarci delle sorprese inaspettate. A dimostrazione di ciò prenderemo il caso della fontana di piazza della Repubblica, così evidente e conosciuta alla vista di ogni automobilista romano, con la certezza che la prossima volta riuscirete davvero a guardarla sotto una luce completamente diversa (e se dicessi "luce rossa" non sarebbe comunque un azzardo). Ad ogni modo, trattandosi di una trafficata rotatoria, il consiglio che vi do è di approfondire solo una volta che avrete parcheggiato il mezzo, per evitare di trasformare la vostra curiosità in un fuoripista automobilistico sotto i portici di piazza della Repubblica.

La storia di questo ardimentoso monumento ha inizio nella seconda metà dell'Ottocento, in concomitanza con le vicende che sancirono la tanto agognata fine del potere temporale dei Papi sulla città eterna. A quel tempo Papa Pio IX, evidentemente poco preoccupato per la piega che stavano prendendo gli eventi, pensò bene di distrarsi ulteriormente occupandosi dell'imponente ristrutturazione dell'antico acquedotto "Marcio". A conclusione dei lavori l'acqua venne molto modestamente ribattezzata "Pia" e la relativa mostra, in realtà piuttosto sobria e semplicistica, venne infine collocata presso l'attuale piazza dei Cinquecento di fronte alla stazione Termini (per chi ancora non lo sapesse, quando parliamo di "mostra dell'acqua" non facciamo riferimento a una cessa incontrata in piscina o alla compagna di un mostro marino, ma bensì a quel genere di fontana monumentale progettata come "esposizione celebrativa" dell'acqua trasportata a Roma attraverso gli antichi acquedotti). Il sarcastico popolo di Roma, consapevole della fine che avrebbe fatto il Papa di lì a poco, si espresse a tal proposito coniando lo slogan da stadio "acqua Pia, oggi tua domani mia", e infatti appena dieci giorni dopo l'inaugurazione, con la presa di Roma attraverso la celebre breccia di porta Pia, si pose trionfalmente la parola fine alla lunghissima monarchia papale con la definitiva annessione di Roma al regno d'Italia. Nel pieno fermento da rinnovamento edilizio che seguì alla proclamazione della città come capitale di Italia, si decise infine di ricollocare la mostra nella rinnovata Piazza Esedra, dove venne dunque costruita l'attuale nuova fontana. Anche in questo caso l'opera risultò piuttosto spoglia e così, in occasione della visita dell'imperatore di Germania a Roma, si decise di sistemare in via temporanea quattro leoni di gesso agli angoli della vasca a puro scopo decorativo. Un pò come tirare fuori il servizio buono quando viene l'ospite importante.


La svolta finale si ebbe nel 1887 con l'approvazione del progetto di un tale Mario Rutelli, il quale decise di rivoluzionare l'aspetto della fontana con l'allestimento di quattro colossali gruppi bronzei. Se il nome dello scultore vi fa pensare a un tale Francesco, alle sue ossessioni per passi e sottopassetti e a un'insopportabile moglie tuttologa da salotto televisivo di serie B, ebbene sì, Mario Rutelli era proprio il bisnonno del nostro "beneamato" ex sindaco di Roma (del quale preferisco senza dubbio la versione di Guzzanti). I quattro gruppi progettati dal Rutelli architetto che possiamo ammirare oggi sui quattro lati della fontana stanno a rappresentare le quattro ninfe dell'acqua, ognuna caratterizzata dall'audace accostamento alla bestia marina di riferimento. La ninfa degli Oceani che doma un cavallo (sarà per i cavalloni?), la ninfa dei laghi alle prese con un cigno e le ninfe delle acque sotterranee e dei fiumi rispettivamente e voluttuosamente sdraiate su una specie di lucertolone e un serpente marino. Da lì il nome di "Fontana delle Naiadi". Immediatamente scoppiò lo scandalo: i loro corpi nudi e bagnati, le pose lascive, gli sguardi sfrontati, fecero all'epoca enorme scalpore, e per lungo tempo la fontana rimase coperta da uno steccato in attesa di delibera. Ovviamente ciò non fece altro che aumentare la curiosità degli abitanti dei rioni il cui continuo via vai contribuì ad accendere ulteriormente lo scandalo. Il modo migliore per descrivere il clima dell'epoca è riportare lo snobissimo commento di un consigliere comunale dell'ala più conservatrice di influenza papalina, che con l'appoggio dei quotidiani vaticani così tuonava in riferimento alle Naiadi: “….non ninfe inebriate dall'acqua, ma ciociare ubriache di cattivo vino nelle pose più dimostrative”. Un genio.


A rompere gli indugi ci pensarono infine gli studenti con un'inaugurazione coatta (nel senso di forzata, ma forse pure un pò coatta) nel primo giorno di carnevale del 1911, il tutto con il beneplacito di un comune allora felicemente progressista e non ancora soggetto alle influenze clericali. Un gesto che rappresentò la vittoria della libera espressione artistica, del moderno laicismo, ma soprattutto della cessazione di una sterile polemica del cazzo, arte in cui da sempre in Italia siamo impareggiabili maestri. Ma l'opera non era ancora completa e solamente al trascorrere di undici lunghi anni venne proposta dallo stesso Rutelli un'integrazione con un ultimo armonizzante elemento centrale: tre tritoni in lotta con un delfino e un polipo. Tale delirio da rissa sottomarina non mancò ancora una volta di stimolare la fantasia dei romani che decisero di battezzarlo "il fritto misto". La copia temporanea realizzata in malta venne così relegata nei giardini di Piazza Vittorio e ancora una volta le Naiadi furono lasciate da sole. A quel punto il Rutelli, forse esasperato dopo le tante polemiche, o più probabilmente con un atto di consapevole ironia che rasentava il colpo di genio, optò per una soluzione di impatto che avrebbe messo tutti d'accordo, ninfe soprattutto. Ecco quindi ergersi sul gruppo il poderoso Glauco mentre stringe un guizzante delfino, simbolo della dominazione dell'uomo sulla natura. In poche parole un possente uomo nudo con un grosso pesce in mano, da cui si eleva lo schizzo principale dell'intera coreografia acquatica. Potremmo speculare per ore sui doppi sensi dell'opera e sugli effetti ambigui che ci regalano i diversi punti di osservazione, ma a toglierci di impaccio ci pensa questa volta il Sor Capanna, celebre cantastorie romanesco che con la sua lirica appassionata applicata allo stornello, così ci serve la sua giusta conclusione:

C'è a Piazza delle Terme un funtanone
che uno scultore celebre ha guarnito
cò quattro donne ignude a pecorone
e un omo in mezzo che fa da marito.
Quanto è bello quer gigante
lì tra in mezzo a tutte quante:
cor pesce in mano
annaffia a tutt'e quattro er deretano.

E con questo momento di altissima poesia vi lascio sperando che al prossimo giro di rotatoria a piazza della Repubblica riuscirete infine  a "vedere" quel qualcosa di più di questa bellissima fontana.



giovedì 1 novembre 2012

Dice che a Roma ce stanno le palme sotto terra


Nell'immaginario collettivo le catacombe sono sempre state erroneamente considerate il nascondiglio segreto dei Cristiani ai tempi delle persecuzioni. Dico erroneamente perché in effetti risulta difficile credere che i Romani, conquistatori di un impero immenso per estensione e complessità, e i cui confini si estendevano dal Medio Oriente alla Britannia, fossero così imbecilli da non accorgersi di quello che avveniva nel frattempo in casa propria, sotto i loro stessi piedi "calzarati". Se dunque non volessimo sottovalutare l'intelligenza dei nostri antenati, dovremmo rassegnarci al fatto che le catacombe altro non fossero che semplici cimiteri sotterranei, che solo in rare occasioni venivano utilizzati per officiare "in segreto" la liturgia Cristiana (attività che normalmente si svolgeva privatamente nelle domus dei patrizi convertiti alla nuova religione, in un contesto decisamente meno umido). Ad ogni modo questo genere di sepoltura sotterranea non va certo considerata come esclusiva dei Cristiani, in quanto la ritroviamo molto in voga sia tra i concorrenti  "pagani", sia tra le prime comunità ebraiche presenti a Roma. E proprio di queste ultime ci occuperemo in questo post.


Le catacombe di Vigna Randanini risultano le più conservate tra le 6 catacombe ebraiche attualmente conosciute nel nostro territorio, e sono situate all'interno della proprietà privata della nobile famiglia dei Gallo di Roccagiovine. Riuscire ad approfittare delle rare aperture speciali del sito è un'ottima occasione per godersi un'avventura casareccia da affrontare all'interno dei confini del raccordo, in particolare quando muniti di lampada e caschetto, ci trasformeremo in breve nell'alter ego provinciale e un pò coatto del sempre mitico Indiana Jones. La prima caratteristica che decreterà la vittoria di catacombe ebraiche contro catacombe cristiane 1-0, in particolar modo per il pubblico dei claustrofobici, è l'apprezzabile larghezza dei corridoi rispetto ai rispettivi delle anguste colleghe cristiane. Ai lati di questi spaziosi viali sotterranei si alternano i classici loculi con le relative targhe, che oltre a fornirci lo spunto per intrattenerci con l'interpretazione delle epigrafi, ci presentano una carrellata dei simboli tipici delle sepolture ebraiche, tra cui ricorrono in particolare il frutto del cedro, la pergamena (nel caso di sepoltura di un "grammatico"), e il mazzetto di erbe aromatiche.


In ogni angolo troneggia sempre e comunque la Menorah, il famoso candelabro a sette bracci simbolo della religione ebraica, trafugato dal tempio di Gerusalemme dall'imperatore Tito come trofeo di guerra per sancire la propria schiacciante vittoria in Giudea. L'episodio venne celebrato con un bassorilievo sull'arco di Tito, celebre monumento dei nostri Fori Romani, rispetto al quale divenne obbligo morale e consuetudine per ogni ebreo romano il categorico rifiuto di passarvi sotto. La millenaria tradizione si è interrotta solo nel recente 1997, con la clamorosa decisione del rabbino capo Toaff di celebrare la Chanukkà con l'accensione della prima fiammella esattamente sotto quell'arco, odiato simbolo della prima grande disfatta del popolo Ebraico. La misteriosa sparizione della Menorah, secondo alcuni andata distrutta, secondo altri nascosta in qualche luogo segreto, rimane avvolta dalla leggenda. Ma noi, da bravi romani quali siamo, vogliamo fidarci di quanto racconta il Belli in un sonetto:

"Mò nun c’è più sto Cannelabbro ar monno.
Per èsse, c’è; ma nu lo gode un cane,
perché sta giù ner fiume a fonno a fonno.
Lo vòi sapé lo vòi dov’arimane?
Vicino a Ponte rotto; e si lo vonno,
se tira su per un tozzo de pane."

Proseguendo il nostro percorso lungo le gallerie, avremo modo di apprezzare, con un tocco di esotismo mortuario, un genere di sepoltura di origine orientale detta Kokh, scavata perpendicolarmente verso il basso rispetto al più classico loculo. Sembrerebbe che in realtà i Kokhim servissero solo come camera di decomposizione, prima che le ossa rimaste fossero successivamente riposte in un più consono ossuario.
Come incidente di percorso ci si presenta improvvisamente il più classico tra gli ostacoli o trappole generalmente presenti in ogni film di Indiana Jones che si rispetti. All'altezza di un pozzo-lucernario ci attende infatti la temibile tribù dei ragni grillo, un incrocio nefasto che unisce alla naturale repulsione per ogni forma di vita aracnide, l'elemento ansiogeno del salto a tradimento. La guida ha la delicatezza di comunicarcelo in un misto tra indifferenza e perverso piacere con un monocorde "qui fate attenzione ai ragni-grillo, che potrebbero saltarvi addosso" (mentre nella mia testa un accorato "MORIREMO TUTTI!" sarebbe stato più consono alla situazione).


A riprenderci dallo sgomento si apre ai nostri occhi la vista della prima delle due camere sepolcrali affrescate. La decorazione, in questo caso piuttosto danneggiata, ci riporta alle origini del popolo ebraico, con una curiosa rappresentazione di palme da dattero disposte sui quattro lati del cubicolo. Ed è proprio in presenza di questi piccoli dettagli che si rimane catturati dal fascino della continua scoperta e della complessità di una storia millenaria, che solo Roma riesce a regalarci senza mai smettere di stupire: ci troviamo probabilmente sotto il giardino di una delle meravigliose ed inavvicinabili ville dell'Appia antica, o all'altezza di un incrocio della trafficata via Ardeatina, e proprio qui, nel silenzio del sottosuolo, ci ritroviamo ad ammirare quattro palme da dattero dipinte più o meno duemila anni prima, e che ancora riescono a trasmettere tutta la nostalgia di un popolo per gli elementi naturali della propria terra d'origine. Purtroppo il resto dell'ambiente risulta danneggiato da interventi successivi di allargamento, e dopo una rapida occhiata a quello che rimane delle altre decorazioni, riprendiamo il nostro percorso.

L'itinerario prosegue, ed è forte la tentazione di defilarsi per esplorare una delle tante diramazioni, immaginando di poter testimoniare chissà quali scoperte. Il punto di arrivo e il culmine della visita è rappresentato dall'ultima camera sepolcrale, divisa in due ambienti distinti. La ricchissima decorazione sembra convergere verso gli elementi centrali delle volte, rappresentati nel primo ambiente da una vittoria alata nell'atto di incoronare un giovane nudo, e nel secondo da Fortuna con una cornucopia in mano (preferivate la foto del primo?). Tutto intorno si dispiega un'alternanza di figure animali e floreali che si concentrano sul tema dei volatili nella prima camera e dei pesci nella seconda. Questo insolito impianto decorativo, composto da simbologie piuttosto classiche e in parte legate a ritualità politeiste, ha fatto pensare ad un preesistente utilizzo pagano di questa sezione della catacomba, ma in realtà è lecito ritenere che si tratti semplicemente di una moda dell'epoca, ripresa dagli ebrei a puro scopo decorativo (un pò come quando arrediamo casa appendendo maschere africane, senza che questo implichi necessariamente il nostro coinvolgimento in riti animisti e danze tribali nel soggiorno di casa). L'intera superficie delle pareti è coperta da graffiti di visitatori risalenti agli anni '30 del secolo scorso, con le classiche diciture di nome, data e attestazione di presenza sul genere "anche noi siamo stati qui". Dopo l'iniziale sconcerto per un tale scempio, che farebbe apparire al confronto un qualsiasi writer metropolitano come l'incarnazione della civiltà e del rispetto del decoro urbano, cominciamo infine a guardare con interesse anche a questa ulteriore testimonianza storica di un periodo recente, in cui il concetto di preservazione dei beni culturali non era stato evidentemente ancora assorbito.
Alla fine, non paghi dell'attacco dei ragni grillo, abbiamo deciso di non farci mancare nemmeno i fantasmi. E per concludere in pieno stile "puntata di Mistero" ( probabilmente con la medesima "autorevolezza" di Raz Degan e Daniele Bossari ), sottopongo anche a voi lettori l'inquietante fotografia scattata nei sotterranei, dove alla destra del ragazzo col giubbotto nero (ultimo della fila), si riconosce la minacciosa presenza di tre figure umane. Fantasmi, effetto ottico o bastardissima applicazione dell' I-phone? Probabilmente non lo sapremo mai.


L'ingresso alle Catacombe ebraiche di Vigna Randanini si trova su via Appia Pignatelli 4. Per visitarle è necessario fare affidamento ad una delle tante associazioni culturali romane che periodicamente organizzano visite guidate (tra le altre vi consiglio www.sotterraneidiroma.it).






mercoledì 17 ottobre 2012

Dice che le scale le devi fà in ginocchio

La tanto decantata "eternità" di Roma si manifesta continuamente nei suoi più molteplici aspetti: dalle infinite, eterne attese alle fermate d'autobus, alla persistenza di antiche tradizioni, giunte sorprendentemente immutate fino ai giorni nostri, dopo un tempo quasi eterno. E quando capita di assistere al lento incedere di fedeli che risalgono i gradini della Scala Santa in ginocchio, esattamente come accadeva cinque secoli fa, non possiamo che rimanere affascinati dalla potenza simbolica di una tradizione sopravvissuta persino all'uscita del fottutissimo I-phone 5. Alla base del "percorso" un cartello multilingue fornisce ai visitatori casuali le istruzioni per l'uso, mentre alcuni tra i "volontari" si concedono, in linea con la modernità di una società ormai decisamente welness oriented, la rinuncia a sofferenza e sacrificio grazie all'utilizzo di pratici cuscini salvaginocchia. Come agognato premio li aspetta l'indulgenza da tutti i peccati, ma solo a tempo determinato. Lo status di santità applicato a semplici gradini di marmo deriva nientedimeno che dalla leggenda della loro appartenenza alla scala originale del palazzo di Ponzio Pilato, teatro dello storico processo a Gesù Cristo, fatta recapitare da S.Elena, madre dell'imperatore Costantino, come ingombrante souvenir del suo lungo viaggio in terra santa. Utilizzata in principio come scalone di ingresso dell'antico palazzo Lateranense, venne successivamente ricollocata all'interno dell'attuale edificio cinquecentesco ricostruito ad hoc, opera dell'architetto Domenico Fontana, realizzato nell'ottica del rivoluzionario rinnovamente edilizio dell'intera piazza S.Giovanni commissionato da Papa Sisto V.

La scala venne dunque rismontata, trasferita e ricostruita gradino per gradino nel giro di una sola notte (praticamente la metà del tempo che impiegherebbe un essere umano normodotato a montare una stupidissima libreria Billy di Ikea), e venne dunque riciclata come accesso privilegiato all'antica cappella privata dei pontefici, unico elemento originale risparmiato dalla demolizione dell'intero complesso Lateranense. La scala è rivestita da una protezione in legno di noce, al fine di evitare la consunzione del sacro marmo ad opera delle spigolose ginocchia dei fedeli, e rimane visibile solo parzialmente attraverso alcune apposite fessure: lo stesso meccanismo di protezione del divano buono in salotto con copridivano tattico, e stesso deludente effetto. Il punto di arrivo della scomoda ascesa è rappresentato da un finestrone con grata, di fronte al quale i fedeli sostano a fine percorso in adorazione dell'immagine del cosiddetto Salvatore Acheropita, custodito all'interno della suddetta cappella privata.

La cappella dei pontefici (in realtà cappella di S.Lorenzo) è conosciuta inoltre come Sancta Sanctorum (santa tra le sante, o come si dice a Roma santa 'na cifra) per via della preziosissima e cospicua raccolta di reliquie di quelli che possono considerarsi i veri e propri big della santità: dalle teste di Pietro e Paolo, in seguito ritrasferite nella basilica, alla testa di S.Agnese, fino ad arrivare al sacro prepuzio di Cristo, la cui travagliatissima vicenda meriterebbe un post a parte. Impunemente sottratto da un Lanzichenecco durante il sacco di Roma, fu ritrovato a Calcata in seguito alla cattura sul posto dello sventurato ladro di prepuzi, dove venne infine custodito nella chiesetta del paese fino all'ultimo clamoroso furto del 1983. Il fatto che l'ultimo atto si sia svolto proprio nel borgo colonizzato dagli ex hippies, in un contesto fricchettone di peace and love in cui era lecito fumarsi di tutto, rende l'intera faccenda persino più inquietante. Tornando alla cappella privata dei pontefici, per noi che alle ginocchia ci teniamo (e presuntuosamente riteniamo di non avere peccati da assolvere) ci è concesso raggiungere più comodamente questo autentico gioiello medioevale percorrendo la scala parallela, che passando attraverso l'adiacente oratorio di S.Silvestro, permetterà di accedere direttamente all'interno del Sancta Sanctorum.


Tra affreschi originali del 1200, splendidi mosaici e decorazioni Cosmatesche, emerge su tutto come indiscusso protagonista la meravigliosa immagine del Cristo Salvatore. Narra la leggenda che l'apostolo Luca, notevolmente apprezzato per le sue doti pittoriche, si accinse a realizzare su richiesta dei fedeli un ritratto di Gesù come celebrazione dopo la sua morte. Dopo essersi limitato a tracciare un pigro disegno di base, l'apostolo decise quindi di lasciare il lavoro incompleto pensando di proseguire il giorno successivo (mi ricorda qualcuno), ma è proprio nel corso della notte che accadde il miracolo e la tavolozza si perfezionò senza il suo intervento con una spontanea e prodigiosa apparizione di eccezionali colori. Per questa ragione l'immagine venne denominata Cristo "Acheropita", che in greco bizantino significa appunto "dipinto da mano non umana". Approfitto quindi dell'episodio per augurare lo stesso prodigio a chi dovesse accingersi a rimbiancare le pareti di casa (potremmo persino inaugurare il pantone acheropita). L'immagine è oggi quasi interamente nascosta da una ricchissima copertura argentea, decisione che risale al pontificato di Innocenzo III. In realtà persino il volto, unica porzione apparentemente visibile, è stato riprodotto su di un velo di seta successivamente applicato sull'originale (di nuovo la storia dei maledetti copridivani). Questo significa che non conosceremo mai la straordinaria bellezza di un'immagine, frutto di una tecnica talmente sorprendente da essere ritenuta soprannaturale e dovremo dunque limitarci a percepirne la potenza e l'importanza dietro un eloquente strato di superficiale ricchezza.


Esattamente di fronte troviamo l'armadietto custode delle sacre reliquie, chiaramente blindatissimo. Tra tutte rimane visibile, esposto su una delle pareti laterali, solamente una porzione del legno della tavola dell'ultima cena. Levatevi comunque dalla testa l'immagine della tavolata per tredici di leonardesca memoria e pensate piuttosto a una sorta di monovassoio da colazione in camera, vale a dire quello che un tempo era considerato tavolo. E mentre dal finestrone con grata le fedeli giunte in vetta ci scrutano come fossimo in un esperimento di osservazione comportamentale, decidiamo infine che è arrivato il momento di uscire. All'esterno ci attende nuovamente il traffico impazzito di piazza S.Giovanni, semafori, clacson e un'orda di venditori ambulanti che cerca di rifilare ogni genere di paccotiglia. E quasi viene il dubbio che alla fine la salita in ginocchio in confronto sia solo un sano esercizio di relax. Persino senza cuscino.

La Scala Santa si trova in Piazza S.Giovanni 14. Il Sancta Sanctorum è visitabile tutti i giorni (escluso la domenica e il mercoledì mattina) dalle 10:30 alle 11:30 e dalle 15:00 alle 16:00. Ad ogni modo è consigliabile prenotare o chiedere maggiori informazioni allo 06-7726641.

E visto che era un pò che non lo facevo vi ricordo ancora una volta del mio libro "Roma Fuoripista". Una selezione dei migliori itinerari nello stile "Dice che a Roma" che potete acquistare on line direttamente sul sito www.romafuoripista.com o nelle librerie romane indicate sulla medesima pagina! Daje che Natale è vicino (seeeeee)

giovedì 4 ottobre 2012

Dice che s'è fatta l'ora di pulire il bagno


Generalmente identifichiamo il passato di Roma con le vestigia della monumentalità imperiale o religiosa (che poi sempre imperiale è), ma c'è un altro passato che non dobbiamo assolutamente sottovalutare: quel passato recente in cui riecheggiano ancora le storie di generazioni appena precedenti la nostra. Storie che alcuni ricordano ancora in prima persona e che non ci vengono raccontate sulle pedanti pagine di un testo storico, ma attraverso la voce della gente comune, o come in questo eccezionale caso, grazie alla filmografia degli anni più felici del nostro cinema. Spesso i due passati si accavallano o si confrontano come se fossero uniti da una linea sottile, e accade che il meno potente dal punto di vista iconografico, per quanto prezioso, rischi di soccombere alla fine più atroce e svilente: abbandonato al degrado e all'incuria. La Casa del Passeggero, ex albergo diurno all'incrocio tra via del Viminale e via delle Terme di Diocleziano, ci appare oggi come una discarica urbana, appena ingentilita dalle forme liberty di inizio secolo scorso. Un raffinato covo di immondizia, "contessa miseria" dell'architettura romana di un tempo, inspiegabilmente avviata verso la più assurda cancellazione (e grazie a Carmen Consoli per la definizione).


Piccolo capolavoro del "barocchetto romano", realizzata nel 1920 dall'architetto Oriolo Frezzotti, si distingue immediatamente per quella sinuosa tettoia in vetro e ferro battuto, che messa a protezione dello scalone di ingresso interrato, appare come precaria cornice di una facciata composta con angeli in pietra e bassorilievi di bronzo, in un armonico insieme che invita a sognare di un passato avvolto da vapori e profumo di acqua di colonia (in realtà c'è tanfo di piscio, quindi levatevi dalla faccia l'espressione estatica). Sulla ringhiera di ingresso troneggia la sigla Caspas, esotica abbreviazione di "Casa del Passeggero", ad indicare la sua funzione di albergo diurno a due passi dalla stazione Termini, punto di arrivo prediletto per ogni viaggiatore bisognoso di un bagno o più semplicemente di qualche ora di riposo. Un moderno stabilimento termale, sorto per caso o volontà proprio nei luoghi in cui un tempo si estendeva ciò che rimane delle maestose terme di Diocleziano (la linea sottile che lega tra loro i passati di Roma).


Doccia, barbiere, manicure e pedicure erano solo alcune tra le prestazioni offerte, oltre ad un efficiente servizio di dattilografia per chiunque avesse avuto bisogno di una lettera scritta a macchina. E non erano solo i viaggiatori ad usufruirne: in un tempo piuttosto recente dove il bagno in casa era un optional (con l'unica eccezione del minimo indispensabile per le evacuzioni di base), erano in tanti gli abitanti dei quartieri limitrofi a desiderare"il lusso" di un momento di benessere tra i vapori di un bagno caldo. Lo stesso genere di  lusso che noi oggi ricerchiamo nelle Spa, dove tra sadici massaggi con pietre bollenti, bagni nella cioccolata o pediluvi nel vino (che spreco) non saprebbero più che inventare per soddisfare la richiesta di un pubblico ormai abituato alla vasca idromassaggio in casa. Come in tutti i luoghi di passaggio non mancavano ovviamente le prostitute della zona, pronte ad offrire un gradito servizio extra ai frequentatori del posto. Ed è così che in questo microcosmo intriso di talco, vapori e cipria, tra puttane e dattilografe, eleganti viaggiatori e coppie clandestine, piazzisti e residenti in cerca di relax è stato scritto un piccolo pezzo di quel racconto di un Italia fatta soprattutto di persone, con i loro sogni, i loro vizi e le loro attese. Chissà quante storie si sono intrecciate e sono nate oltre quel cancello, oggi  malamente custodito da due teste di leone in pensione che sembrano aver perso la fierezza di un tempo. Dietro di loro i magnifici ovali in bronzo ci raccontano una storia di esotica ricercatezza, dove liberty e richiami classici si fondono nell'idea di una cura del corpo che dalla Roma imperiale ad oggi (con lunghe, maleodoranti pause nell'età di mezzo e oltre) ritrova la sua collocazione nei bisogni e nelle aspirazioni della gente comune.


Accanto alla storia quotidiana c'è anche una storia di celluloide, fatta di registi e attori che immortalarono la Casa del Passeggero, affascinati da quelle forme e dalla peculiare quotidianità che rende magico ogni luogo di passaggio, punto di incontro di cittadini e viaggiatori. Nel film "il segno di Venere" del regista Dino Risi, i grandissimi Franca Valeri e Peppino de Filippo interpretano rispettivamente una dattilografa e un fotografo, impiegati medio borghesi in quello che veniva allora definito come centro multiservizi. In origine il film doveva essere incentrato sul personaggio della sola (ed evidentemente sottovalutata) Franca Valeri, ma per esigenze commerciali della casa di produzione Holliwoodiana venne richiesto di infarcire la pellicola con quanti più attoroni Italiani da blockbuster possibili come garanzia di successo. E fu così che si compì il miracolo che vide gli interni della Caspas come set di incontro dei più grandi mostri sacri del cinema italiano in un unica pellicola. E accanto a Franca Valeri, ecco incrociarsi sotto le volte affrescate della Casa del Passeggero personaggi e storie interpretati nientedimeno che da Sofia Loren, Alberto Sordi, Peppino de Filippo e Vittorio de Sica.

Anche il maestro Fellini ne rimase folgorato, e notoriamente fissato nel voler necessariamente riprodurre ogni ambiente esterno tra le mura di Cinecittà, al punto da ricostruire in studio l'intera via Veneto de "La dolce vita", fece realizzare una copia della facciata della Casa del Passeggero come set per il suo autobiografico "l'intervista" del 1987. E a questo punto potremmo azzardare la forzatura di una misteriosa leggenda o maledizione, secondo cui tali ricostruzioni tolsero l'anima ai loro originali facendoli precipitare entrambi in una decadenza che è oggi sotto gli occhi tutti (via Veneto volgare trappola per turisti, e la Casa del Passeggero discarica a cielo aperto). Ma non possiamo certo dare la colpa a Fellini e alle sue manie se oggi ci ritroviamo questo gioiello seppellito dalla monnezza.


Sarebbe facile fare del populismo e prendersela con una amministrazione troppo impegnata a gozzovigliare nascosta dietro eloquenti maschere da porco. Forse più che inveire dovremmo conoscerla, parlarne, fotografarla, scoprirla, raccontarla, e un giorno qualcuno con più possibilità di noi potrebbe infine prendersela a cuore e porre le basi per una sua rinascita. Possibilmente non come ennesima galleria d'arte radical-chic, ma come punto di incontro variegato quale era. Tra puttane, viaggiatori, commesse e perditempo, sintesi e specchio di un Italia amata e odiata e che oggi sembra solo un lontano ricordo.

lunedì 17 settembre 2012

Dice Pietro: "Quo vadis, domine?" ('ndo vai, Signò?)

Se due linee di metro messe in croce non possono certo definirsi rappresentative di un underground metropolitano degno di questo nome, la prospettiva cambia completamente quando andiamo a considerare le oltre sessanta catacombe che si diramano per centinaia di kilometri nel sottosuolo romano: una serie apparentemente infinita di percorsi sotterranei che farebbe venire il mal di testa persino a Lara Croft (ma purtroppo decisamente poco pratici ai fini della mobilità pubblica di cittadini e pendolari). Le catacombe di San Sebastiano sulla via Appia antica, situate al di sotto dell'omonima Basilica intitolata al martire, sono tra le uniche cinque regolarmente aperte al pubblico.

L'attuale Basilica risale al XVII secolo e venne riprogettata sulla base del precedente edificio Costantiniano, opportunamente innalzato nel IV secolo D.C. sul luogo dove secondo tradizione riposarono per un certo periodo le spoglie degli apostoli Pietro e Paolo e del martire Sebastiano. Ed è proprio a quest'ultimo che venne dedicata la Basilica in un crescendo di popolarità che lo vide protagonista come santo taumaturgo, nemico delle pestilenze, nonchè terzo patrono della città di Roma. L'iconografia rinascimentale ce lo consegna nei panni (succinti) di un giovanotto bello e prestante che, legato ad una colonna così come mamma l'ha fatto, viene trafitto dalle frecce in una celebre rievocazione del suo primo scenografico martirio (dico primo perchè in quel caso scampò alla morte in seguito alle cure della vedova Irene, per poi essere definitivamente giustiziato con un meno pittoresco bastonamento). 

Rappresentato originariamente come un vecchio barbuto, Sebastiano subì un notevole rifacimento del look durante il Rinascimento, probabilmente ispirato alla leggenda dove il santo appare al vescovo di Laon sotto le sembianze di un giovane efebo. Gli artisti rinascimentali lo trasformano dunque  in un sensuale e muscoloso ragazzotto, nella cui rappresentazione pittori e scultori dai più svariati orientamenti sessuali sfogarono con estrema dedizione il proprio culto per la bellezza delle forme anatomiche maschili. I turbamenti di Oscar Wilde al cospetto di una spassionata raffigurazione pittorica, opera del maestro Guido Reni, sancirono definitivamente il suo ingresso nell'olimpo dell'iconografia gay maschile, al fianco di più attuali personaggi come Madonna e Lady Gaga (e in quanto alla prima non mi riferisco ovviamente alla sua collega dei piani alti). La meravigliosa statua di Giuseppe Giorgetti, che da sola vale la visita della Basilica, collocata sul sarcofago all'interno della cappella dedicata, risponde esattamente ai suddetti canoni rappresentativi, e non stupisce che a realizzarla fu proprio un allievo del Bernini, già maestro di erotiche ambiguità nella realizzazione del suo capolavoro dedicato a S.Teresa D'Avila. E mentre vi invito ad approfondire per fatti vostri la produzione artistica legata al santo che, da Reni al Mantegna, fino alle psichedeliche rappresentazioni anni Settanta, si è reso protagonista di un eccezionale percorso iconografico in bilico tra sacro e profano, sposterò la vostra attenzione sul lato opposto della navata alla scoperta dei tesori della cappella delle reliquie. Tra queste potremo osservare nientedimento che un esemplare originale delle frecce che contribuirono a ridurre il povero Sebastiano "quasi ericius..." (ovvero, come scrisse l'autore della Passio in una scontatissima similitudine da seconda elementare, come un riccio ricoperto di aculei) e la porzione della colonna a cui venne legato.

Tra le reliquie si distingue una lastra di pietra accompagnata dalle parole "Quo Vadis", che riporta bene impresse delle curiose impronte di piedi sandalati. Narra la leggenda che l'apostolo Pietro, in fuga da Roma per sfuggire al martirio, incontrò Cristo sulla via Appia all'altezza dell'incrocio con la via Ardeatina, e così come è consuetudine in ogni incontro casuale, e a maggior ragione trattandosi di una persona defunta, lo accolse spontaneamente con la domanda "Quo vadis, Domine?" (Dove vai, Signore?). Rispose Gesù con nonchalance "Sto andando a Roma a farmi crocifiggere una seconda volta" (e dici niente!). La sottile risposta aveva il chiaro obiettivo di colpevolizzare l'apostolo per la propria vigliaccheria, essendo la corretta interpretazione la seguente: "tu scappi, e invece guarda un pò: io vado ad affrontare la morte". Che poi detto fra noi per uno già morto ce vole poco. Ad ogni modo Pietro colse il senso della frecciata e umiliato tornò indietro, dove fu infine martirizzato, probabilmente pensando che in un prossimo incontro avrebbe fatto meglio a farsi i sacrosanti affari suoi. In ricordo dell'episodio e come testimonianza dell'apparizione (o più semplicemente per essere finiti entrambi in un cantiere di rifacimento del manto stradale) rimasero impresse sulla strada le impronte dei piedi di Gesù. Il calco era originariamente conservato nella chiesa del Quo Vadis, edificata sul luogo dell'apparizione, e al cui interno viene oggi conservata solamente una copia dell'originale. E se ad Hollywood  se la tirano per la celebre passeggiata delle star con i calchi delle impronte dei più grandi attori del secolo (Mickey Mouse compreso), noi romani non siamo certo da meno e alle impronte di George Clooney rispondiamo nientedimeno che con quelle di Gesù Cristo!

Ma le sorprese non sono finite e in un'altra piccola (e a dire il vero piuttosto svilente) nicchietta scopriamo l'ultimo "ritrovato" capolavoro di Gian Lorenzo Bernini, quel "Salvator Mundi" scolpito prima della dipartita dell'artista e del quale si persero le tracce a partire dal 1773. Scovato nei  meandri del monastero della Basilica dopo lunghe peripezie e finti ritrovamenti bufala, è stato infine rimesso in esposizione solo a partire dal 2006, e colpisce in effetti che sia stato collocato nel primo scomparto libero della basilica con la stessa cura con cui sistemeremmo l'ennesimo soprammobile di troppo regalatoci a Natale.

Per coloro che non soffrono di claustrofobia (o di attacchi di panico alla scoperta del prezzo del biglietto: 8 euro, sinceramente ben spesi) la visita deve obbligatoriamente proseguire nel sottosuolo, lungo quel percorso sotterraneo, ma soprattutto temporale, che a partire da una vecchia cava di pozzolana, e passando per un'antica necropoli pagana, ci accompagnerà alla scoperta del culto segreto dei primi cristiani. Esplorare questi cunicoli tempestati di loculi, e riflettere sul fatto che si tratti solamente di una porzione infinitesimale di quell'immenso labirinto che corre sotto i nostri piedi, dà quasi un senso di vertigine, ed è eccitante pensare di potersi perdere tra centinaia di chilometri solo azzardando un fuoripista non consentito (autocitazione con link a tradimento), prendendo una diramazione a caso alle spalle della nostra guida. Il percorso obbligato si articola lungo tre tappe fondamentali, la prima delle quali è la cripta originaria dove venne collocata la tomba di San Sebastiano (perfettamente allineata con l'attuale sistemazione del sarcofago in superficie all'interno della basilica). La seconda tappa è la più stupefacente: ci ritroviamo infatti al cospetto di tre antichi mausolei pagani perfettamente conservati nelle loro decorazioni a stucco originali. L'effetto è quello dell'ingresso in una piccola città sotterranea. Il sorprendente stato di conservazione, che senza alcun bisogno di successivi interventi di restauro hanno riportato intatte fino a noi magnifiche volte decorate da raffinati stucchi e pitture originali raffiguranti banchetti funebri e antiche leggende pagane, è dovuto al conseguente interramento del complesso effettuato dai primi cristiani al fine di creare le basi per una costruzione successiva, terza e ultima tappa del nostro percorso sotterraneo. In cima ad una scala scopriremo infatti ciò che rimane della cosiddetta Triclia, ambiente sacro (originariamente coperto da una tettoia) destinato alla celebrazione di banchetti funebri dedicati alla memoria dei santissimi Pietro e Paolo. Sulla parete superstite possiamo oggi divertirci a interpretare i numerosi graffiti originali lasciati sulle mura dai devoti pellegrini di un tempo, degni antenati dei writers di oggi.

Vi consiglio questo viaggio nella storia in abbinamento a una passeggiata sulla via Appia Antica , che proprio a partire dalla Basilica di San Sebastiano si esprime in uno dei suoi tratti più affascinanti. Parleremo di questa strada unica al mondo e dei suoi innumerevoli tesori in altri post in futuro. Per il momento godetevela senza meta e senza preoccupazioni, e nel caso doveste incrociare una faccia conosciuta sulla via, tirate dritto e non fate domande!

La Basilica e le Catacombe di S.Sebastiano si trovano in Via Appia Antica 136 e sono visitabili dal lunedì al sabato tra le 9:00 e le 12:00 la mattina e tra le 14:00 e le 17:00 il pomeriggio.

p.s.
Grazie a Claudia e Luca per avermi accompagnato in questo itinerario! :)

mercoledì 29 agosto 2012

Dice che dalla stazione di Porta S.Paolo si viaggia..nel tempo


L'estate sta finendo (involontaria citazione trash anni Ottanta) e, complice la paventata crisi economica, moltissimi tra i romani hanno scelto per quest'anno di limitarsi ad un pendolarismo estivo di consolazione verso gli ameni lidi di Ostia Beach. Nel corso dell'ultimo secolo la linea ferroviaria Roma-Ostia lido della stazione di Porta San Paolo ha consentito a generazioni di bagnanti di transumare verso l'agognato refrigerio del litorale metropolitano, lungo questa mitica tratta che rimane tutt'oggi un'esperienza obbligata per ogni vero romano, e che varrebbe la pena affrontare anche solo per osservarne la variegata umanità che ne popola allegramente banchine e vagoni munita di pranzi al sacco, materassini oversize e ombrelloni contundenti: una versione decisamente più estiva e colorata rispetto alle grigie tonalità di solitudine che siamo abituati ad incontrare nei convogli metropolitani in orario di ufficio. Per chi non lo sapesse, una volta attraversato il varco muniti di biglietto, c'è la possibilità di ingannare l'attesa con un rapido salto nel passato delle ferrovie metropolitane, attraverso una breve visita all'adiacente Parco Museo Ferroviario dell'Atac. Agli incazzatissimi utenti dei mezzi in questione, che contino di riuscire ad ammirare in loco una collezione di scalpi degli amici di Alemanno nepotisticamente infiltrati in azienda, dispiace comunicare che dovranno accontentarsi di una curiosa esposizione di tram e locomotori d'epoca, affiancati da tutta una serie di cimeli a tema rinvenuti tra depositi, stazioni e uffici amministrativi. 


Una volta entrati verremo accolti con sospetto e delusione da una serie di locomotori in disuso, e quelle che a prima vista ci appariranno come vecchie macchine arenate in un capolinea di periferia qualsiasi, si riveleranno in realtà essere dei piccoli gioielli d'epoca dai nomi altisonanti di Locomotore 05, Tram 404, ed Elettromotrice ECD21. La possibilità di salire a bordo per un viaggio temporale su binario è il classico bonus che farà sicuramente la differenza. Ed eccoci così montare all'interno del tram 404, classe 1939, un tempo operativo su quel percorso fatto di sogni e speranze che da Termini conduceva a Cinecittà. Tra i vecchi sedili in legno e la scoperta di dettagli d'epoca, una serie di vetrinette conservano documenti e scartoffie a tema tra i quali è doveroso segnalare l'originale di un certificato di richiesta di "prolungamento malattia" di un ex lavoratore, la cui presenza in sede di esposizione ci piace leggerla come autoironica celebrazione delle attitudini dei dipendenti pubblici. In poche parole la "cazzata" di un ex dipendente nostro antenato assurge alla dignità di documento storico che diventa pezzo da museo. Raccoglimento e devozione di fronte al cimelio sono richiesti ad ogni vero fancazzista che si rispetti.


Ancora più affascinante risulta l'esplorazione a bordo dell'elettromotrice ECD21 (per i profani una sorta di mix tra convoglio postale e treno passeggeri) in rappresentanza dei convogli della ferrovia Roma- Civita castellana-Viterbo. Il cosiddetto treno della Tuscia, oltre a sfoggiare la sua buca postale itinerante brandizzata "Regie Poste" sulla fiancata, destinata a  raccogliere la corrispondenza lungo le stazioni, ( ogni commento comparativo o riflessione sulle moderne tecniche di comunicazione suonerebbe banale e retorico, ma non resisto e devo farlo: "altro che le e-mail di oggi!"),  ci accoglie al suo interno in uno scomparto viaggiatori di terza classe dagli originali arredamenti lignei. Sarebbe certamente interessante approfondire i dettagli della cabina-sala macchine o l'interno del piccolo ufficietto adiacente allo scomparto bagagli, ma l'esperienza più significativa è certamente quella di sedersi al "proprio" posto, chiudere le tendine e immaginare una destinazione di sessant'anni fa per un viaggio nella storia che, complice la propria fantasia, pochi musei sanno ancora regalare. Se poi qualcuno dovesse sorprendervi mentre leggete il vostro libro comodamente seduti prendendovi per pazzo, è comunque un problema suo.


Tornati all'esterno possiamo chiedere al disponibilissimo e gentilissimo personale (e lo dico senza ironia) di condurci verso l'ex biglietteria estiva, testimone di un tempo in cui l'incremento dei viaggiatori su rotaia verso l'esotico lido di Ostia necessitava di sportelli aggiuntivi per la stagione calda, in linea con quella consueta efficenza di regime tuttora tristemente glorificata (ed effettivamente dei "treni in orario" la nostra storia ne avrebbe fatto volentieri a meno). All'interno è visibile un'ulteriore collezione di inutili e curiosi cimeli che, tra vecchi pacchi di biglietti inutilizzati e tessere ingiallite di ex dipendenti, potrebbero al limite destare interesse esclusivamente in un frequentatore accanito di mercatini delle pulci. E anche in questo caso saranno la fantasia e l'immaginazione a regalarci l'emozione più forte, quando tenteremo di rievocare una nostalgica cartolina d'epoca dove bagnanti del secolo scorso si accalcano in fila per un biglietto verso l'eccezionalità di una giornata al mare a quegli stessi sportelli ormai chiusi. Ma il cuore dell'esposizione e la vera sorpresa che ci riporterà alle nostre primitive pulsioni ludiche è la "stanza segreta" con il plastico dei trenini elettrici. Anche in questo caso sarà il custode di turno ad introdurci in una stanza dominata dal cosiddetto plastico Urbinati (dal nome dell'autore), rappresentante la stazione e la centrale elettrica di Osilo (che una googlata veloce collocherà in provincia di Sassari in Sardegna). L'accensione del plastico ferroviario ci lascerà incantati come bambini troppo cresciuti, mentre in un loop alienante continueremo a seguire il trenino che entra ed esce dalle gallerie, con un sorriso ebete dipinto sul volto e la conseguente e comprensibile commiserazione mista ad orgoglio negli sguardi del custode.

Alla fine della visita ci siamo meritati una serie di gadget da veri fedelissimi, tra i quali una T-shirt brandizzata Atac, che indossata in pandant con la relativa borsa di tela, potrebbe risultare un ottimo metodo per girare con i mezzi pubblici senza biglietto, nella speranza che l'ostentata devozione per il marchio ci aiuti a simpatizzare con il controllore di turno (come effetto collaterale potreste apparire perfetto capro espiatorio per un assalto di vecchine incazzate alla fermata dopo 50 minuti di attesa abbondante).

Il piccolo Museo del Trasporto si trova all'interno della stazione di Porta San Paolo ed è aperto ad ingresso libero (solo io ho pagato il biglietto per passare i tornelli?) dal lunedì al giovedì, dalle 9:00 alle 16:00 e il venerdì dalle 9:00 alle 13:00