venerdì 28 dicembre 2012

Dice che Caravaggio nun pagava l'affitto


Raccontare l'intera vita di Michelangelo Merisi detto Caravaggio rischierebbe di impegnarci in un' avvincente, ma infinita epopea di trasferimenti e fughe, costellata di risse, omicidi e ingiurie: "ho in culo te e quanti par tui si trovano" disse il nostro Michelangelo a un caporale, trovando la prigione al posto di un applauso. Una vita avventurosa da artista maledetto scandita dalla produzione di grandiose opere d'arte riconosciute a livello mondiale. In questo caso ho deciso di selezionare un singolo episodio e una sola opera, invitandovi a cogliere un momento della vita dell'artista con una breve passeggiata tra i rioni di Campo Marzio e S.Eustachio. Sullo sfondo c'è la Roma gaudente e pericolosa dei primi del Seicento, dove il sacro va di pari passo col profano e le madonne si confondono con le puttane. Tra soggiorni in carcere e nobili rifugi sotto la protezione di potenti famiglie e cardinali, è stata infine accertata la presenza di un temporaneo domicilio privato del Merisi. Ci troviamo in vicolo San Biagio (oggi vicolo del Divino Amore) a Campo Marzio ed è proprio qui che prese alloggio il Caravaggio alla fine del suo periodo romano, affittando un piccolo studio in compagnia del suo garzone. In calce al regolare contratto di affitto stipulato con tale Prudenzia Bruni, si evince una curiosa clausola che attesta la richiesta dell'artista di poter "scoprire metà della sala" sfondando il solaio. Primo caso di inquilino che procura danni come da contratto! E' affascinante pensare che proprio lui, considerato il maestro della luce, avesse richiesto uno sfondamento del soffitto per affinare i suoi giochi di tecnica dell'illuminazione, anche se in realtà sembra che la modifica strutturale fosse necessaria per consentire la realizzazione di una tela di grandi dimensioni, commissionata proprio in quel periodo. La proprietaria, evidentemente poco informata sul passato turbolento del suo affittuario, che già annoverava un curriculum di tutto rispetto fatto di risse, furti e sfregi vari (non mancò il piatto di carciofi in faccia all'oste scorbutico e rompicoglioni), accettò in cambio di una dichiarazione che prometteva il ripristino finale dell'alloggio a spese dell'inquilino. E vatte a fidà der Merisi!


Fu dunque proprio in quel vicolo che per un certo periodo il Caravaggio rientrava dopo le sue scorribande notturne tra osterie e bordelli. Nel frattempo avvenne un incidente, le cui conseguenze si risolsero in una sua prima fuga da Roma. Causa dell'"imprevisto" fu una prostituta di nome Lena, amante del turbolento Michelangelo, per la quale avvenne uno scontro in strada tra il pittore e tale notaio Mariano Pasqualoni: "spasseggiando in Navona (..)mi sono sentito dare una botta in testa dalla banda di dietro, che io sono subbito cascato in terra et sono restato ferito in testa, che credo sia stato un colpo di spada (...). Io non ho visto chi sia stato quello che mi ha ferito, ma io non ho da far con altri che con detto Michelangelo, perchè a queste sere passate havessimo parole sul Corso lui et io per causa d'una donna chiamata Lena (...)". Quasi ci sembra di vedere il Caravaggio che inveisce in via del Corso per amore di una prostituta. Il pittore fuggì quindi a Genova lasciando Prudenzia con affitto e soffitto scoperti. La povera donna decise quindi di aggiungere un'ulteriore querela alla collezione del pittore, e per rifarsi dei mesi di affitto non pagato e del danno al solaio riuscì infine ad ottenere il sequestro dei beni del Merisi. Dai documenti ufficiali si denota a quanto questi ammontassero: una magra consolazione per la donna, e un ulteriore motivo di stima per i fan del personaggio. Si rinviene infatti tra l'altro " un forzieretto (...) con dentro un par de calzoni et un giuppone stracciati, una quitarra, una violina, un pugnale (...)". Al ritorno da Genova Michelangelo Merisi si ritrova quindi senza casa e senza beni, e a questo punto non trova di meglio da fare che andare a prendere a sassate la finestra della povera Prudenzia: in poche parole cornuta e mazziata!


E' proprio durante gli anni di vicolo san Biagio che il genio realizza la tela della "Madonna dei pellegrini". A questo punto è doveroso procedere lungo via della Scrofa per raggiungere la chiesa di Sant'Agostino, dove il dipinto fa bella mostra di sè nella Cappella Cavalletti. L'opera racchiude in sè le caratteristiche che hanno reso celebre il pittore: il drammatico utilizzo della luce, e il consueto realismo di strada applicato all'opera religiosa, fatto di stracci, piedi sporchi e fattezze popolane (e come non pensare a Pasolini e alla sua Medea?). Come se non bastasse a fare da modella per la vergine Maria viene scelta una prostituta, la celebre Lena del "contenzioso" di piazza Navona. Potreste immaginare lo scandalo e lo scalpore? In realtà la cosa che fece più scandalo e scalpore furono i piedi gonfi e zozzi dei pellegrini, offerti in faccia allo spettatore con il solito sfacciato realismo. Ulteriore motivo di lamentela fu l'aspetto decisamente poco signorile della dimora mariana, dove le pareti scrostate della facciata accanto allo stipite avrebbero fatto pensare, oltre che ad un amministratore di condominio poco efficiente, ad un contesto decisamente popolare. Ma non vi sembra forse familiare quello stipite? Guardate la foto del portone in vicolo San Biagio. Effettivamente i tempi coincidono (l'opera fu realizzata proprio nell'anno della sua permanenza in casa di Prudenzia) e come ulteriore conferma potremmo citare l'abitudine dell'artista di inserire un elemento autobiografico all'interno delle proprie opere. Esemplificativo in questo senso fu il suo riprodurre ossessivamente le proprie fattezze nei volti delle teste mozzate, come gesto di disperata scaramanzia conseguente alla promulgazione della sua condanna alla decapitazione (ma questo lo vedremo in seguito). Magari quella Lena desiderata dal pittore proprio in quel periodo, rappresentata sulla soglia della propria abitazione aveva per lui un significato personale che andava a sovrapporsi alla lettura religiosa dell'episodio.


Tanto per rimanere in tema la stessa chiesa di Sant'Agostino era abitualmente frequentata dalle prostitute della zona, come ci riporta tra l'altro in una sua lettera a Lorenzo de' Medici la cortigiana Beatrice da Ferrara: "così, mezzo contrita, mi confessai dal predicatore di Sant'Agostino; dico nostro, perchè quante puttane siamo in Roma, tutte veniamo alla sua predica, ond'esso, vedendosi sì notabile audentia, ad altro non attende se non a volerne convertir tutte. Oh, dura impresa!". Ma la madonna del Caravaggio non è l'unica madonna della chiesa a mescolarsi col profano: a due passi dal dipinto del Merisi possiamo infatti ammirare la statua della Madonna del Parto, che secondo la tradizione popolare del tempo si riteneva fosse l'adattamento di una statua romana raffigurante Agrippina madre di Nerone, e che il Belli non esita a definire puttana in un sonetto per via dei suoi ornamenti preziosi che la rendono "accusì ricca, accusì ciana"  Tornando a Caravaggio sappiamo già come come finisce la storia. Durante una partita al gioco della pallacorda, sempre nei pressi di vicolo san Biagio, scoppia una rissa dove ci scappa il morto. Questa volta è stato chiaramente passato il limite e viene emessa una condanna a morte. Da quel momento in poi la vita del pittore si trasforma in una fuga rocambolesca attraverso Napoli e poi Malta, conclusasi malamente con la morte del Merisi sulla rive di Porto Ercole, proprio quando infine sembrava essergli stato concesso il perdono e il conseguente ritorno a Roma. Di lui ci restano le sue opere e la sua storia avventurosa, che magicamente si ripresenta a noi semplicemente sbirciando in un vicolo buio della città. E in un istante rivive un momento della vita di un grande artista e lo squarcio di un'epoca in cui Roma seppe esprimere al meglio la sua natura: quella di santa e di puttana, proprio come in un'opera del grande Caravaggio.


Grazie a Silvia del blog la locandiera per il prezioso spunto!

P.S.
Vicolo san Biagio si chiama oggi vicolo del Divino Amore

lunedì 10 dicembre 2012

Dice che i "Baptai" festeggiavano alla grande


Nell'elegante quiete borghese del quartiere Pinciano, qualora riteniate che gli unici segreti custoditi dai garage siano i lussuosi macchinoni dei residenti, sarete sorpresi di scoprire che proprio lungo l'anonima rampa di accesso ad un garage condominiale si nasconde uno dei più affascinanti ed enigmatici sotterranei di Roma: il misterioso Ipogeo di via Livenza, situato appunto tra via Livenza e via Po. Il motivo di tale generica denominazione è dato dalla mancata identificazione della funzionalità di questo sito. Ipogeo  (letteralmente dal Greco upo/sotto geo/terra) sta in effetti ad indicare un imprecisato luogo sotterraneo, motivo per il quale la prossima volta che dovrete scendere in cantina a recuperare una bottiglia di vino potreste di diritto cimentarvi in un altisonante "scendo n'attimo a prende n'artra boccia giù all'ipogeo". Il che susciterà certamente l'ammirazione (e qualche vaffa) da parte dei vostri commensali. Ma da dove nascono questi dubbi interpretativi sulla natura del luogo? Innanzitutto possiamo notare che l'ipogeo venne originariamente concepito come sotterraneo, il che ci viene confermato dal fatto che per accedere al suo interno ci troveremo a discendere i gradini originali della struttura. Purtroppo gran parte dell' ambiente è stato sacrificato dai lavori di costruzione dei palazzi sovrastanti, quando nell'impeto distruttivo dei palazzinari di inizio secolo scorso, solo la sezione più settentrionale venne risparmiata, forse per caso o forse in virtù dell'eccezionalità dell'impianto decorativo. Di quello che doveva essere un ambiente ellittico rimane dunque solo questa piccola porzione, consistente in una piscina, una splendida nicchia riccamente affrescata e i residui di una coloratissima decorazione mosaicale.


Prima di addentrarci nelle possibili interpretazioni, sarà bene descrivere i soggetti decorativi e la struttura della vasca-piscina, per raccogliere i primi indizi ed iniziare quindi a formulare le diverse ipotesi. La piscina è un vascone profondo due metri e mezzo foderato in cocciopesto, nel quale si accede attraverso tre gradoni piuttosto alti (il primo è stato riciclato da una lapide con un intuizione death-design piuttosto notevole). Sia l'altezza del fondo che quella del gradino iniziale fanno sorgere i primi dubbi in merito ad un possibile utilizzo a scopo ricreativo. Basti immaginare a come reagiremmo se andassimo in una Spa e ci ritrovassimo una vasca idromassaggio alta tre metri (lapide a parte), senza considerare inoltre che la presunta "bassezza" dei nostri antenati avrebbe contribuito a rendere la cosa ancora più seccante. L'acqua sgorgava direttamente da una sorgente naturale preesistente per mezzo di un tubo di terracotta, mentre per lo svuotamento e il ricambio notiamo sulla sinistra un ingegnoso sistema di apertura e chiusura a scorrimento tipo saracinesca.


Sovrasta la vasca una splendida nicchia riccamente decorata sia all'interno che ai suoi lati. Sul lato sinistro troviamo la figura di Diana/Artemide nell'atto di estrarre una freccia dalla faretra per cacciare un cervo, mentre sul lato opposto una ninfa animalista accarezza un piccolo bambi. Il tutto in un ambiente agreste rappresentato con notevole padronanza della prospettiva e dei chiaro-scuri. A prima vista potremmo quindi dedurre di trovarci al cospetto di personaggi e simbologie pagane. In realtà, se andiamo a curiosare sui resti della decorazione a mosaico nella parete laterale, scopriremo i dettagli superstiti di una rappresentazione a soggetto cristiano, dove si percepisce la figura di un uomo inginocchiato davanti ad una fonte, affiancato da un'altra figura in piedi. Secondo l'iconografia cristiana sembrerebbe rappresentare l'episodio di Pietro che fa scaturire l'acqua da una fonte per dissetare (e simbolicamente battezzare) un centurione. Quindi un episodio decisamente legato alla "nuova" religione. Tutto intorno amorini ed eroti dediti a scene di vita acquatica e fancazzismo marino (chi pesca, chi gioca coi cigni, chi nuota).

Per fare un pò più di chiarezza sarà bene definire il contesto storico in cui ci troviamo, accertato con precisione dalla presenza di un bollo (il marchio di fabbrica) con il monogramma di Costantino impresso su un mattone che ci riporta immediatamente in epoca Costantiniana, e dunque nella seconda metà del IV secolo D.C.. Costantino fu il primo imperatore ad ammettere e conseguentemente a istituzionalizzare il cristianesimo dopo secoli di persecuzioni, seguito da Giuliano l'Apostata che tentò un breve revival del paganesimo, fino alla definitiva consacrazione del cristianesimo come unica religione di stato da parte di Teodosio. Tutto questo ci fa comprendere quindi come in un'opera di quel periodo potesse essere normale trovare confusamente affiancati simboli del cristianesimo e retaggi del paganesimo. E chissà che addirittura non si fosse utilizzata la figura di Diana come metafora del paganesimo che scaccia i cervi (cristiani) in opposizione alla ninfa che li accoglie e accarezza (interpretazione decisamente forzata per i miei gusti). L'immagine di Pietro alla fonte e tutta una serie di elementi che rimandano all'acqua potrebbe quindi far supporre la funzionalità del luogo a battistero cristiano. Ma anche in questo caso un battesimo in due metri e mezzo di vasca risulterebbe un operazione piuttosto complessa, e quindi poco convincente.


Infinitamente più affascinate è l'ipotesi che rimanda alla setta misterica di origine Tracia dei cosiddetti Baptai, adoratori di una certa dea Cotys, in tutto e per tutto assimilabile ad Artemide. Questo spiegherebbe allo stesso tempo la presenza di Diana e quella di una vasca più profonda. In effetti quello che oggi potrebbe apparirci come un Rave finito male, consisteva allora in un preciso schema rituale, dove in un crescendo di alcol e pratiche orgiastiche, la presenza dell'acqua e quindi di una vasca risultava fondamentale per accompagnare i partecipanti all'apice della festa con un tuffo nell'acqua gelata. Il conseguente shock termico subito in condizioni da "ritiro patente" era coraggiosamente definito dagli adepti come "shock dell'estasi". E allora come giustificheremmo la presenza del Pietro battista? Come per il culto Mitraico, dove ritroviamo numerose analogie con la religione cristiana, non sarebbe così strano poter ammettere una coesistenza di simboli (quelli che so' strani forte sono al limite i Baptai). Numerose altre ipotesi vanno dal troppo generico (luogo segreto destinato a riti magici) al decisamente più logico (luogo di riunione di una setta sincretista, corrente religiosa in cui convergono simbologie e pratiche provenienti da più religioni diverse), ma se la soluzione fosse infine quella più semplice? Nei pressi della frequentatissima via Salaria, la consolare che tagliava l'Italia dal Tirreno all'Adriatico per permettere il trasporto del sale dal guado del Tevere alla Sabina (Salaria dunque da sale, per chi ancora stesse cercando di capire chi fosse il console "Salario"), sgorgava al tempo una sorgente d'acqua. Allo sbocco di questa sorgente si decise dunque di costruire un ninfeo, una sorta di autogrill alle porte della città per dare modo ai viaggiatori appena arrivati di rinfrescarsi e poter fare una sosta rigenerante. La decorazione "mista" risulta dunque una scelta di ruffiano "marketing" della tolleranza, che nel flusso cosmopolita dei viaggiatori, tradizionalisti pagani e neo-riconosciuti cristiani, aveva l'obiettivo di non scontentare nessuno.
Io dico che quest'ultima ipotesi non fa una piega, ma se qualcuno dovesse aprire domani su facebook l'evento "festa baptai"..fate conto che ho già cliccato su "parteciperò".


Per accedere al sito il consiglio è di rivolgersi ad associazioni specializzate come "Roma Sotterranea" o "i sotterranei di Roma"., che organizzano visite periodiche all'ipogeo.