lunedì 14 ottobre 2013

Dice che da vicino nessuno è normale

"Visto da vicino nessuno è normale". Lo scopriremo durante questa difficile visita al complesso di S.Maria della Pietà, l'ex manicomio di Roma definitivamente chiuso nel troppo recente 1999 in seguito alla definitiva applicazione della legge Basaglia del 1978. Tra i viali alberati del parco, riconvertito in area verde oggi frequentata da joggers e famigliole, si impone la presenza di quei 34 decadenti padiglioni, e sembra impossibile non percepire il dolore di chi ha vissuto questi luoghi sulla propria pelle. Riportare la normalità lì dove la normalità non c'è mai stata, una contraddizione che stride e affascina allo stesso tempo. E' ora di abbandonare il maledettissimo politically correct e parlare di pazzi e di follia, perchè chi pazzo non ci è entrato, lo è certamente diventato una volta varcata questa soglia. E questo a causa di una legge sopravvissuta troppo a lungo ( legge Giolitti del 1904) che obbligava all'internamento persone ritenute "socialmente pericolose o di pubblico scandalo" (e quindi anche orfani, omosessuali o ragazze madri), un'aberrazione che poneva l'accento sul "comportamento" e la conseguente separazione dal corpo sociale, ma non sulla cura del disagio. Una legge volta a segregare, eliminare, annullare l'essere umano, portarlo al di fuori della società affinché venisse definitivamente rimosso (come quei bambini di strada rastrellati e rinchiusi in occasione delle pulizie generali per il santo giubileo del 1950).

Mi è stato fatto notare tra amici che sarebbe più corretto da parte mia parlare di "persone con disagi psichici", ma in certi casi di terminologicamente corretto non c'è assolutamente un cazzo, e solo il termine pazzia può definire a 360 gradi chi ha subito questo inferno, chi ha concepito certi meccanismi, chi è riuscito a mantenere la lucidità e un sentimentio umano nonostante tutto (penso al grande Adriano Pallotta, ex infermiere del S.Maria della Pietà e memoria storica di questi luoghi). Pazzia come violenza, a volte come genialità di un'espressione artistica, e fortunatamente pazzia di chi in tempi insospettabili ha avuto il coraggio di mettere ogni cosa in discussione contro tutto e tutti. A partire dallo psichiatra Franco Basaglia, che con le sue idee rivoluzionarie e incentrate sulla storia e l'individualità del singolo, ha portato a quello sconvolgimento finalmente confluito in una legge che porta il suo nome, per la chiusura dei manicomi e per un approccio volto al reinserimento e non all'esclusione sociale. Ma oltre e insieme a lui c'era anche chi portando avanti le stesse idee aveva molto più da perdere e da rischiare. Come l'infermiere Adriano Pallotta, fautore del cosiddetto blitz al padiglione 16, quando, in anticipo sulla legge e con un vero e proprio atto rivoluzionario scaturito da riunioni segrete e violente discussioni interne, vennero ufficialmente richieste e fatte approvare poche fondamentali regole per cominciare a rendere più umani e sopportabili quei luoghi senza vita: dalla conquista di una maniglia per aprire la porta, al sollievo di un attività ricreativa, per uomini ormai ridotti a zombi come semplici occupanti di uno spazio chiuso. Verso di lui c'è l'ammirazione per il coraggio, ma soprattutto per l'intelligenza e la lucidità di un uomo che, parte integrante di quel mondo chiuso all'esterno, è riuscito nonostante tutto a concepire che le cose sarebbero potute essere anche diverse da quello che erano.


Tutto questo ci viene raccontato all'interno del padiglione 6 nel nuovo "museo laboratorio della mente". Il museo è un piccolo gioiello per innovazione e metodologia, grazie anche alle sorprendenti installazioni realizzate dallo studio Azzurro. Devo ammettere che solitamente divento allergico al solo sentire parlare di "installazioni", termine che mi riporta alla mente sedicenti artisti fancazzisti e figli di papà che il più delle volte concettualizzano il nulla assoluto mettendo insieme rifiuti urbani, tracce audiovisive distorte e oggetti esposti nella solitudine di uno spazio che potrebbe essere occupato molto più funzionalmente da qualche cassa di birra. E mentre il pubblico si atteggia ad esperto, i veri grandi artisti del passato si rigirano nella tomba. Ebbene al museo della mente ho deciso di ricredermi completamente abbandonando ogni mio pregiudizio con tanto di mea culpa, di fronte alla rara eccezione di "installazioni" (mi costa dirlo) non solo dotate di un significato profondo e perfettamente condivisibile, ma dove la funzionalità della sperimentazione si accompagna ad una cura estetica di grande impatto.

Ed è attraverso di esse che si svolge la prima parte del percorso, dove prima ancora di "assistere" come spettatori morbosi e commossi alle storie tragiche di chi ha vissuto in questi padiglioni, saremo costretti a concentrarci su noi stessi e sui meccanismi della nostra mente, in un costante parallelismo fra le nostre percezioni e quelle di chi ha davvero varcato questa soglia, fisica e mentale. Si parte con la cosiddetta "camera di Ames" e le sue alterazioni percettive, per stabilire quel principio che dovrà accompagnarci durante tutta la nostra esperienza: la mente lavora in modo assolutamente pregiudiziale. Assistendo ad un effetto ottico di tipo spaziale, capiremo che è più semplice distorcere la realtà piuttosto che mettere in discussione i modelli così come abbiamo imparato a percepirli sin dall'infanzia. Lo stereotipo e il pregiudizio come pericolosa autodifesa. E così si procede in una reintepretazione delle patologie psichiche (l'illogico assedio di voci e parole, lo sdoppiamento della propria immagine riflessa, il dissociamento espressivo di chi parla senza riuscire ad ascoltare e viceversa) con pezzi di noi che ritornano nelle stanze successive, sotto forma di parole o immagini precedentemente registrate.

A questo punto saremo sufficientemente pronti ( e scossi psichicamente) per varcare la soglia della follia, una follia più subdola di quella sfoggiata in macchina o al telefono poco prima di entrare. Ci prestiamo quindi alla foto segnaletica per un ingresso simbolico tra le figure di questo passato, per poi successivamente ritrovare il nostro volto confuso tra quelli degli ex pazienti su uno schermo che controlleremo da seduti dondolandoci avanti e indietro, affinchè persino la fisicità gestuale della follia entri a far parte di noi. E se vorrete sperimentare le famose "voci nella testa", basterà accomodarsi con i gomiti appoggiati su un tavolo (ben posizionati sul punto di emissione) e le mani a coprire le orecchie, per lasciarvi deliziare da un'inquietante sequela di "nonsense" sparata direttamente nel vostro canale uditivo, dalla lista delle spesa alla quintessenza dei deliri paranoici. L'effetto acquista un senso anche visto dall'esterno: gli osservatori potranno sperimentare la vostra figura con la testa stretta fra la mani come quella di un paziente che voglia fermare questa oppressione interna, con voi stessi che diventerete parte attiva dell'installazione mentre interpretate la (vostra?) pazzia.

La seconda parte della visita riproporrà la ricostruzione (e la conservazione) di alcuni ambienti originari, dallo studio medico, luogo di speranza e umiliazione, alla farmacia, alla cosiddetta camera di contenzione, la stanza dove il paziente veniva legato al letto con delle fasce per un tempo variabile tra poche ore a qualche anno (sì, addirittura anni), il tutto per comportamenti arbitrariamente non graditi. E se la vista della camera di contenzione non fosse di per sé abbastanza forte, il fatto di spiarla in solitudine attraverso un foro sulla porta vi regalerà l'effetto speciale aggiuntivo di farvi sentire degli stronzi morbosi. Infine il refettorio, luogo di comunione e di consumo dei pasti, rivive in una raffinata trovata multimediale come archivio documentaristico. Ed è così che toccando alcuni documenti apparentemente dimenticati su un tavolaccio di legno, si apriranno le storie, le interviste e le testimonianze di chi questo mondo, da vittima o carnefice senza alcuna distinzione di ruoli, l'ha vissuto durante tutti questi anni. Si ricostruisce così il mosaico di una vera a propria città autosufficiente dove gli attori si muovono in gruppi: i medici intoccabili e distanti, gli infermieri divisi tra umani e aguzzini, i pazienti  scrupolosamente classificati per genere e caratteristiche comportamentali, e infine le suore gendarmi. Grazie a queste testimonianze si cerca di restituire l'unicità e l'individualità ad ogni singola persona. Si restituisce all'uomo la sua storia, quello che veramente conta nell'approcciarsi con il diverso da noi, a tutti i livelli. Fa quasi sorridere che proprio durante una visita che vuole sconfiggere ogni stereotipo, ritorna nelle frasi, nei racconti, nelle testimonianze, forte e tragicomico, lo stereotipo delle suore implacabili e crudeli, quelle che ordinavano l'elettroshock, che punivano i pazienti, che vessavano gli infermieri. L'unico gruppo dei quattro tra i quali sembra non emergere nessuna individualità positiva, uno stereotipo che nemmeno il mito di miss Pony in Candy Candy  è riuscito a scalfire dai lontani giorni dell'asilo, e che in questo caso sembra trovare la sua rassicurante conferma. 

Le installazioni, i documenti, i filmati, gli oggetti personali accatastati nella ricostruzione di quella che veniva definita "la fagotteria", ovvero il luogo dove i pazienti venivano spogliati di ogni effetto personale (che banalità sarebbe dire "e anche della loro dignità") per mettersi nella mani di un folle esperimento collettivo, tutto contribuisce a sorprenderci, emozionarci, farci sorridere (perchè no?) e prenderci a pugni. Ma forse l'effetto non sarebbe stato la stesso senza la preziosa presenza di Adriano Pallotta, il rivoluzionario infermiere di cui vi ho parlato. Lo rivediamo alternativamente tra i filmati e poi in carne ossa davanti a noi, a raccontarci le stesse storie e a trasmetterci la stessa emozione. Sembra quasi che sia un effetto voluto, in continuità con quel gioco di voci, immagini e parole che ritornano e rimbalzano da una stanza all'altra con risultati percettivi differenti. Adriano è sullo schermo, nella stanza, nel filmato multimediale, e di nuovo fuori a fumarsi una sigaretta e a scherzare con noi. Sto impazzendo davvero? Mi sono venuti gli occhi lucidi e questo in un museo non succede.

E' difficile rimanere lucidi e corretti parlando di una visita così emozionante. Chi si aspettava (chi mi ha chiesto) che aiutassi a far conoscere questo luogo straordinario raccontandolo con distacco e la giusta dose di politically correct rimarrà deluso. Sono certo che tornerò nuovamente, ancora e ancora, morbosamente attratto dal mistero della psiche, dalla percezione forte di un dolore vissuto (perchè siamo così?) e più semplicemente dalla normale attrattiva di un museo così ben organizzato e all'avanguardia, incredibilmente ancora troppo nascosto e sconosciuto. Come disse Basaglia ispirato dalle parole di un uomo che dopo anni di segregazione dal mondo era terrorizzato all'idea di "entrare fuori", è ora di far cadere le barriere mentali e fisiche per poter infine "entrare fuori e uscire dentro".
Se vi perdete questa visita siete dei pazzi, e affanculo il politically correct.


Il museo laboratorio della mente è situato nel padiglione 6 del comprensorio di S.Maria della Pietà, in Piazza S.Maria della Pietà 5, ed è visitabile dal lunedì al venerdì tra le 9:00 e le 17:00 e il sabato tra le 9:00 e le 13:00. Ingresso 5 euro, tel.0668352927. 

Ringrazio Antonella per avermi fatto conoscere questo posto, Alessandro Rubinetti per avermici portato fisicamente in una delle sue passeggiate teatrali e Adriano Pallotta (chiedete di lui) per i suoi racconti e la sua grande umanità.